Una volta si privilegiava il silenzio, quando la prognosi legata al decorso negativo di una malattia era infausta. Per compassione, per riserbo, per rispetto, per evitare l’afflizione della morte incombente al malato. Ma non è più così, anzi il malato vuole sapere, il medico ritiene di dovere dire la verità, e c’è una tendenza, sembra più diffusa, a strappare ogni velo di riserbo. Scrittori, artisti, uomini dello spettacolo raccontano al loro pubblico i giorni che precedono la morte. La malattia terminale viene condivisa con articoli, saggi, libri.
Perché è cambiato tutto? Serve davvero “sapere”? Sì, è vero; solo “sapendo” si può combattere la malattia. Ed in ogni caso, vivere quei giorni difficili “sentendo” l’affetto della gente è un regalo cui non si vuole rinunciare. Gli interrogativi restano, tuttavia, a partire dalla qualità dei sentimenti di coloro che non si perdono nulla sulla narrazione di quei giorni difficili, di quel dramma che i malati vivono.
L’evoluzione del rapporto tra malato e malattia, e più in generale tra l’individuo e la propria vulnerabilità, riflette un cambiamento profondo nella società e nel nostro modo di intendere la vita e la morte. In passato, il silenzio che circondava una prognosi infausta era considerato un atto di compassione, una forma di protezione verso chi doveva affrontare un destino già segnato. Si cercava di preservare il malato dall’angoscia della morte imminente, offrendo, forse, un’illusione di speranza. Oggi, però, questo paradigma è stato rovesciato. Il malato spesso desidera sapere, il medico si sente in dovere di dire la verità, e la condivisione della malattia – soprattutto quando è terminale – è diventata una forma di narrazione pubblica, soprattutto tra scrittori, artisti e personaggi pubblici.
C’è, senza dubbio, un aspetto pratico legato alla trasparenza: conoscere la propria condizione permette di affrontarla in modo consapevole. Il sapere è potere, dicono, e in ambito medico, sapere significa poter prendere decisioni sulla propria cura, prepararsi emotivamente e pianificare il tempo che resta. La comunicazione aperta tra medico e paziente, fino a non molto tempo fa impensabile, è oggi considerata un diritto inalienabile.
Tuttavia, accanto a questo aspetto concreto, emerge un altro tema: la condivisione pubblica della malattia, che ha assunto dimensioni nuove e, in molti casi, globali grazie ai media e ai social network. Raccontare la propria esperienza con una malattia terminale è diventato un fenomeno sempre più diffuso, spesso con la partecipazione attiva del paziente stesso. Articoli, saggi, libri e documentari mostrano un lato intimo e vulnerabile delle celebrità che, un tempo, sarebbe stato custodito nel privato.
Ma perché questa tendenza a raccontare? La risposta è complessa e tocca corde profonde. In primo luogo, la condivisione della malattia è un modo per mantenere un legame con il mondo, per sentirsi parte della vita fino all’ultimo respiro. Quando ci si trova di fronte all’inevitabile, raccontare il proprio percorso diventa un atto di resistenza, un modo di affermare la propria identità e il proprio valore, anche nel momento in cui il corpo si sta spegnendo. Chi racconta la propria malattia desidera spesso ricevere affetto, supporto e comprensione, quasi a cercare un abbraccio collettivo che allevi la solitudine della malattia.
L’espressione pubblica del dolore può anche essere vista come una forma di dono: raccontando la propria esperienza, si condivide una saggezza guadagnata a caro prezzo, si offre agli altri la possibilità di riflettere sulla vita, la morte e il senso dell’esistenza. Per molte persone, sapere che qualcuno sta affrontando una lotta simile può essere una fonte di conforto e ispirazione.
Non si può però ignorare un lato meno nobile di questa narrazione pubblica: la curiosità morbosa che talvolta accompagna la condivisione di una malattia terminale, soprattutto quando il protagonista è una celebrità. Il pubblico, spesso affamato di dettagli, si interroga sulla qualità dei propri sentimenti. Seguire la storia di un personaggio famoso in punto di morte diventa, per alcuni, una forma di intrattenimento emotivo, una sorta di dramma reale che mescola compassione e voyeurismo.
Questo solleva interrogativi etici non di poco conto: fino a che punto è giusto che il dolore venga condiviso pubblicamente? La condivisione può diventare una sorta di spettacolarizzazione del dolore, una corsa contro il tempo per raccontare tutto prima che sia troppo tardi?
Tuttavia, al di là di queste considerazioni, rimane il fatto che la narrazione personale della malattia terminale ha un potere unico. Non si tratta solo di un racconto di sofferenza, ma di un’espressione di umanità. Condividere quei momenti difficili permette a chi racconta di sentirsi ancora parte della vita, di non essere dimenticato, di vivere un’ultima volta attraverso gli occhi e i cuori di chi ascolta.
E in fondo, questa è forse la lezione più profonda: sapere non serve solo per combattere, ma per vivere, anche di fronte alla morte. Sapere permette di trovare un senso, una voce, un significato, e di sentire, fino alla fine, l’abbraccio del mondo. La verità, anche quella più dolorosa, ci rende umani.







