Non si tratta, beninteso, di una questione estetica né di puro gossip espressivo. No, questa è una domanda seria, quasi teologica. Più vicina a un’indagine agostiniana sul peccato originale del riso che a un’analisi di costume. Un enigma: Il sorriso mancante.
A sollevare la questione è stata Tiziana Panella, brillante conduttrice di La7, rivolgendosi al giornalista Alessandro De Angelis. La risposta, secca e affilata come un editoriale di fine giornata: il populismo ha bisogno del nemico, non della risata. E se si deve combattere, che sia a denti stretti, non con le labbra socchiuse in un sorriso.
Bene, ma non è tutto. Meloni, non ride: irride. Non c’è spazio per l’ironia gentile; solo per il sarcasmo che schiocca come una frusta nelle aule parlamentari o nei comizi, dove la postura è da battaglia, il tono è da trincea.
Lo sguardo torvo, la mandibola serrata, la mascella a morsa: è un’estetica del potere che sembra aver trovato casa nei grandi autocrati del nostro tempo. Trump, Putin, Erdoğan, Xi Jinping… mai un sorriso, al massimo un ghigno. Una posa da sfinge, da leader scolpito nel marmo. Meloni, da questo punto di vista, non fa eccezione: aderisce a una certa grammatica posturale del potere, in cui ridere è indebolirsi, e sorridere è cedere terreno.
Ma qui si annida un paradosso. In un tempo in cui la leadership si misura anche in termini di intelligenza emotiva, la nostra presidente del Consiglio sembra adottare una visione antica, quasi biblica del sorriso: “come lo scoppiettare delle spine sotto la pentola, tale è il riso degli stolti.”(’Ecclesiaste). Traduzione laica: il riso è superficiale, è vacuo, è inutile orpello da comparse, non da condottieri.
Chi ha costruito la propria narrazione sull’idea che il mondo le sia ostile – che le élite, i magistrati, i giornalisti, l’opposizione e perfino l’Unione Europea tramino contro di lei – può davvero permettersi un sorriso? La postura inflessibile stizzosa diretta e implacabile è un’armatura. La protegge e la ispira, facendola sentire sicura di sé. Sorridere significherebbe aprire una fessura nella corazza, esporre un punto vulnerabile.Riconoscere, umanamente, che la realtà è meno minacciosa di come la descrive.
E in fondo, un leader che costruisce la propria forza sulla narrazione della “noi contro di loro”– contro l’immigrazione, la magistratura, l’opposizione politica, la burocrazia, la cultura egemonica della sinistra, contro Bruxelles – non può permettersi di sembrare compiaciuta. Il comandante non ride mentre la nave è in tempesta. Anche quando il mare, in realtà, è quasi piatto.
Un’altra ipotesi? Forse Meloni diffida delle emozioni che non può controllare. Il sorriso, quello vero, non si pianifica. Non si impone. Accade. E accade solo quando si lascia il controllo. E allora meglio non rischiare. Meglio la sicurezza del broncio assertivo, della rabbia incanalata in slogan, del ghigno sarcastico. È più compatibile con una leadership “d’assedio”: dove essere vittima e vincente allo stesso tempo, un equilibrio difficile da mantenere. E il sorriso, ahimè, rompe l’equilibrio. Chi ha costruito la propria narrazione sull’idea che il mondo le sia ostile – che le élite, i magistrati, i giornalisti, l’opposizione e perfino l’Unione Europea tramino contro di lei – può davvero permettersi un sorriso? Proprio in quel volto contratto si nasconde la vera vulnerabilità: la paura di sembrare meno forte, meno inflessibile, meno scolpita nel marmo del comando.
Meloni ha imparato che sua postura è un’armatura. E sorridere significherebbe aprire una fessura nella corazza, esporre un punto vulnerabile. Un leader che costruisce la propria forza sulla narrazione della “guerra” permanente – contro tutto ciò che non sta dalla sua parte – non può consentirsi di sembrare compiaciuta, sorridente. Il comandante non ride mentre la nave è in tempesta. Anche quando il mare, in realtà, è quasi piatto.
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