La società, povera o ricca, ha sempre creato la comunicazione e il linguaggio. Ora è la comunicazione a creare la società: il linguaggio dei suoi padroni ci vuole trasformare in gregge. E “quando l’umanità diventa gregge, ammonisce Friedrich Nietzsche, cerca l’animale capo”,
Viviamo, per lo più ignari, un cambiamento epocale: non siamo più noi a generare il linguaggio, è il linguaggio — confezionato, impacchettato, diffuso da pochi — a generare noi. Non è più la società a produrre comunicazione, è la comunicazione che plasma la società, la orienta, la addestra. E quando il linguaggio si riduce a percussione — slogan, hashtag, comandi — ciò che si forma non è un popolo, ma un gregge. Nietzsche avvertiva che il gregge, prima o poi, reclama un animale capo. Oggi l’animale capo non lo sceglie: lo trova già pronto, servito su schermo, sui social, ottimizzato per la cattura dell’attenzione.
Gli esempi sono sotto gli occhi, quotidiani, concreti. Non c’è più discussione pubblica, ma keyword politics: parole d’ordine prodotte industrialmente — “invasione”, “gender”, “tradimento”, “élite”, “nemici del popolo”, emigrazione, diversità, sovranità, popolo,. Funzionano come chiavi di accesso all’emozione immediata. Non spiegano niente, però mobilitano tutto: paura, risentimento, tribù. È la lingua dei padroni della comunicazione, che trasforma cittadini in branchi. L’algoritmo forma l’identità. Il feed quotidiano è una stalla personalizzata: ti mostra ciò che conferma chi sei, chi devi odiare, a chi devi obbedire. Una sorta di addestramento neuronale inverso: non è l’utente che impara dall’ambiente, è l’ambiente che apprende come piegare l’utente. Il risultato è un’identità costruita per induzione, fragile e pronta all’uso.
I leader parlano per frasi brevi, indignazioni programmate. Non governano: performano. È il linguaggio ridotto a gesto, il gesto ridotto a comando. L’elettore non sceglie il progetto, ma la postura.
Quando il linguaggio non descrive più il reale ma lo sostituisce, cade la capacità stessa di distinguere. Non si parla di poveri, ma di “fannulloni”; non di migranti, ma di “ondate”; non di diritti, ma di “ideologia”. Togli nome, togli realtà. E un gregge senza parole è un gregge senza difese.
Il confine tra notizia, propaganda, intrattenimento e intimidazione si è dissolto. Stati che diffondono video manipolati come atti di governo; partiti che usano meme come decreti; leader che smentiscono la realtà a colpi di slogan. La parola pubblica non serve più a dire il vero, ma a saturare il campo, a impedire che il vero emerga. Il linguaggio che dovrebbe creare comunità crea recinti. Non “noi, insieme”, ma “noi contro”. E più la società è fragile, più questo collante funziona: la tribù sostituisce la polis. L’animale capo non offre un progetto, ma un nemico. E il gregge, pur di avere un centro, accetta la catena.
Siamo dentro una metamorfosi che avanza senza rumore: non c’è colpo di Stato, non c’è censura esplicita. C’è un cambio di sintassi. Uno slittamento della lingua verso la propaganda automatica, verso la semplificazione violenta, verso il comando mascherato da messaggio. Non serve immaginare il futuro per vedere il pericolo: è già presente nel modo in cui parliamo, leggiamo, reagiamo. Sta nel fatto che discutiamo per riflessi condizionati, non per argomenti. È visibile nell’obbedienza travestita da opinione personale.
La lingua dei padroni sta trasformando la società in un gregge ben disciplinato. E il capo — l’animale capo evocato da Nietzsche — non è più un uomo solo: è un intreccio di piattaforme, slogan, algoritmi e poteri opachi che parlano attraverso di noi. Il monito è semplice, senza retorica: Se perdiamo il linguaggio, perdiamo la libertà. E stiamo già scivolando.








