Per la prima volta nella storia repubblicana, due poteri dello Stato si affrontano apertamente. Il referendum sulla magistratura trasforma l’equilibrio costituzionale in terreno scontro politico. E lo Stato di diritto entra in zona di rischio.
Non era mai accaduto: due poteri dello Stato, l’esecutivo e il giudiziario, si misurano pubblicamente come avversari politici. L’avventura referendaria sulla riforma promossa dal Governo è un evento eccezionale che mette in discussione la stessa architettura della Repubblica. Si introduce nella vita istituzionale italiana un conflitto frontale tra ordini di potere: chi debba prevalere, chi debba controllare chi. Un atto di rottura dell’equilibrio costituzionale.
Lo Stato italiano si regge su un principio cardine: la tripartizione del potere. Potere legislativo, esecutivo e giurisdizionale devono essere esercitati da organi diversi — Parlamento, Governo e Magistratura — e indipendenti, affinché nessuno prevalga sull’altro. L’invasione di campo, in questo equilibrio, non è una semplice trasgressione: è una minaccia alla libertà stessa. Le motivazioni del governo sono deboli, contraddittorie, elusive. E’lo stesso Ministro della Giustizia ad avvertire che non servirà a rendere la giustizia più giusta. E allora, se non ne vale la pena perché si rischia tanto?
Guardiamo allo stato delle democrazie nel mondo: negli Stati Uniti, il Presidente ha progressivamente esautorato il potere legislativo e quello giudiziario attraverso un uso estensivo dei decreti esecutivi, giustificati da una sorta di emergenza permanente. In Italia, invece, il Governo propone una riforma della magistratura — separazione delle carriere, nuovi organi disciplinari, sorteggio dei membri togati — senza affrontare la riforma della giustizia, che resta gravata da risorse modeste, procedure lente e tempi incompatibili con la nozione stessa di giustizia, e promuove il duello fra due organi dello Stato, non disponendo della maggioranza qualificata per approvare la riforma costituzionale. Perché?
Il Governo, sostenuto da una maggioranza di centrodestra, accusa la magistratura di travalicare le proprie funzioni e di agire per motivazioni ideologiche — le celebri “toghe rosse”. “C’è invasione di campo, va ricondotto…”, proclama. Larga parte dell’opposizione e della stessa magistratura rovesciano l’accusa: il Governo ha cannibalizzato il Parlamento, come dimostra il modo in cui ha gestito la proposta di riforma, sottraendola di fatto al confronto parlamentare; ha cercato lo scontro e lo ha ottenuto, senza avvertirne i pericoli. L’obiettivo è quello di avere mani libere, senza “interferenze” da parte degli organi di controllo — giudiziario, contabile o costituzionale. Ciò che negli Stati Uniti si manifesta in forma piena, in Italia rischia di presentarsi in dosaggio ridotto ma crescente: la costruzione di una democrazia senza regole, cifra di ogni progetto politico autoritario.
Il vero rischio è infatti sistemico: la contesa potrebbe minare le fondamenta stesse dello Stato di diritto, incrinando il principio di separazione dei poteri. Un sisma, che potrebbe incrinare la pietra angolare della Repubblica. L’arma del referendum nell guerra ibrida tra governo e magistratura, chiama in causa il popolo, costretto a pronunciarsi non sulla giustizia, cui è assegnato il potere di stabilire la primazia di un potere sull’altro — contraddicendo il principio di pari dignità costituzionale tra gli organi dello Stato. E’ qui che si compie la distorsione. Con il referendum il governo usa il coma farmacologico per curare il paziente, la giustizia, scommettendo su un assetto dello Stato alleggerito di lacci e lacciuoli.
Il colpo al sistema democratico potrebbe arrivare ancor prima del voto. Una sorta di semestre bianco. Nella lunga campagna referendaria, ogni gesto, ogni decisione, anche minima, del governo sarà letta come una manovra di parte e nascerà inevitabilmente disfunzionale, lacunosa. I magistrati, consci o meno, saranno costretti a esercitare la loro funzione con il peso del sospetto, ancor più pesante di quello che subicono nella normalità: vivranno il timore di favorire o danneggiare una delle parti in conflitto. Ne deriverà un inquadramento fazioso della realtà, dove ogni evento — un’inchiesta, un processo, persino un fatto di cronaca come il delitto di Garlasco — potrà essere interpretato come conferma o smentita della tesi governativa. Al di là di ciò, la campagna referendaria formalizza una condizione nuova e pericolosa, nella quale gli organi dello Stato diventano avversari politici.
Una lettura diversa dal primo necessario passo verso un assetto incentrato sulla volontà politica dirigistica e leaderistica, non potrebbe spiegare la postura rigida, l’assenza di dialogo, negoziato, confronto. La riforma è in sé è modesta: limita la possibilità, richiesta da poche decine di magistrati, di passare dalla funzione requirente a quella giudicante; introduce il sorteggio nei consigli disciplinari per ridurre il peso delle correnti. Nulla che possa migliorare la macchina della giustizia, né accorciare i tempi dei processi, né rafforzare la fiducia dei cittadini.
È dunque difficile credere che l’esecutivo ritenga questa riforma una priorità assoluta. Più verosimile è che essa sia un pretesto politico, volto a riaffermare la primazia della politica sull’ordine giudiziario, e dunque a liberarsi dai vincoli e dai controlli che garantiscono l’equilibrio costituzionale.
Il sospetto che questa “avventura referendaria” serva a smarcarsi dalle regole trova conferma peraltro negli esempi internazionali: dagli Stati Uniti trumpiani ai regimi autocratici e sovranisti, dove l’erosione dei poteri di controllo è diventata la via maestra del potere personale. È questo il vero punto d’approdo del progetto in corso: una democrazia svuotata, governata da uomini soli al comando, senza contrappesi né bilanciamenti.
Oggi, i primi segni di quella deriva sono già visibili anche ai ciechi.








