La necessità di proteggere la cultura nazionale dall’insidia dello straniero in patria –derubricazione di tradizioni, storia e sangue italici – nasce come questione politica, sotto mentite spoglie, circa tre decenni or sono, quando ha inizio il flusso di migranti verso l’Italia, provocato dalla fame, le guerre, le tirannie, l’instabilità e le tensioni politiche e sociali nel medio oriente, e non solo. Una parte politica del Paese indossa scudo e clava per arginare “l’invasione”, facendone dapprima un problema di ordine pubblico – ricordate le ronde leghiste?- e poi l’abito di ogni competizione elettorale con trin- cee di contenimento: la paura del contagio (malattie arabo-africane), il crimi- ne dei coloured, la concorrenza sul lavoro, l’ibridazione nella scuola; più recentemente, la teoria della sostituzione razziale, pianificata dall’Islam fondamentalista.
Le urne, di volta in volta, hanno confermato la bontà di una posizione politica antimigranti molto remunerativa, alimentata da una comunicazione autorevole e molto radicale nei toni. Oggi, con la tecnologia – web, social, algoritmi, intel- ligenza artificiale – la teoria della sostituzione razziale ha compiuto un salto quantico, disegnando un orizzonte che vede l’integrazione sociale, cioè l’alte- rità, il pluralismo, perdere il suo ruolo nelle grandi democrazie liberali. Un fenomeno planetario, che vede gli Stati Uniti d’America, assumere con la Presi- denza Trump, una leadership, ed il nostro Paese, sostanzialmente allineato, seppur con accenti più moderati.
La crescente influenza, tanto negli Stati Uniti quanto in Europa, di dottrine politiche che invocano una presunta primazia culturale, morale e spirituale dell’Occidente ha messo in crisi una tendenza – la pluralità delle identità, l’integrazione delle diversità e il multiculturalismo – che, sebbene avversata da minoranze rumorose, appariva consolidata. La dottrina MAGA (Make Ameri- ca Great Again) si presenta come programma di rigenerazione patriottica, e si rivela una teologia politica affettiva e gerarchizzante. La costruzione ideologica della “nazione-fortezza”, orgoglioso presidio delle tradizioni, trova eco in proposte educative, culturali e religiose che alimentano una concezione chiusa, gerarchica dell’appartenenza, escludente nella prassi.
L’ideologia MAGA non è soltanto un programma politico, ma una visione escatologica, intrisa di millenarismo, nazionalismo affettivo e nichilismo tecno- logico. Come documentato da Naomi Klein e Astra Taylor su The Guardian, questa dottrina intreccia fondamentalismo cristiano, distopie tecnologiche e pulsioni suprematiste: i suoi promotori costruiscono bunker, colonizzano Marte, celebrano l’aggressività e svalutano l’empatia come “debolezza dell’Occidente”. Steve Bannon, ideologo MAGA, diffonde una narrativa di guerra imminente e collasso civile.
L’élite tecnologica di Silicon Valley partecipa a questo scenario, progettando arche digitali per pochi eletti, in fuga da un pianeta che essi stessi hanno deva- stato. È una visione del mondo non molto diversa da quella ormai diffusa della nazione fortificata, sostenuta dalla destra radicale in vari paesi – dall’Italia a Israele, dall’Australia agli Stati Uniti.
In un’epoca di pericoli costanti, i movimenti suprematisti stanno cercando di trasformare paesi relativamente ricchi in bunker armati: luoghi dove le persone indesiderate, perché diverse per cultura, religione, etnia – sono espulse o incarcerate brutalmente, anche a costo di confinarle a tempo indeterminato in colonie penali extranazionali, dall’isola di Manus a Guantánamo.
In un mondo in cui le élite tecnologiche un tempo liberali della Silicon Valley tutto a un tratto “trovano Gesù”, queste due visioni – lo stato privato d’élite e la nazione-fortezza per le masse – convergono sorprendentemente. Entrambe riflettono un’immaginazione apocalittica simile alla dottrina fondamentalista cristiana del rapimento biblico, in cui i “fedeli” ascendono alla città dorata, mentre i “dannati” rimangono sulla Terra a combattere l’ultima battaglia. L’effetto di questa visione radicale è una chiusura totale alla solidarietà globale, una distorsione dell’affettività pubblica e una mistificazione dell’etica della responsabilità. In questo schema, l’ordo amoris viene piegato a logiche esclu- denti: si ama solo chi è dentro la cerchia nazionale, mentre l’altro è visto come minaccia.
Il confronto teologico e culturale fra questa visione e quella della Chiesa di Roma, oggi guidata da Papa Leone XIV (già cardinale Francis Prevost), è apparso esplicito. Leone XIV reintroduce nel magistero pontificio una lettura agostiniana radicale dell’ordo amoris che si oppone frontalmente a quella stru- mentalizzata in ambito conservatore nordamericano, espressa da figure come J.D. Vance, attuale vicepresidente USA. J.D. Vance ha costruito un discorso centrato sull’amore per la patria, la famiglia tradizionale e la classe operaia bianca, contrapponendosi al liberalismo cosmopolita.
Il concetto agostiniano di ordo amoris, lungi dall’essere un semplice criterio morale, costituisce un principio antropologico e politico: l’ordine dell’amore regola la disposizione degli affetti secondo la loro verità ontologica, subordinando tutto all’amore di Dio. Questa forma di ordo amoris nazionale erige una piramide affettiva: in cima il “vero americano”, in basso l’immigrato, il laico, il
diverso. Si rovescia così l’autentico ordo amoris agostiniano, che non giustifica esclusione ma chiama alla caritas. Francis Prevost si è opposto apertamente all’uso politico-teologico dell’amore come arma identitaria.
Il pontificato di Leone XIV contrappone a questa visione identitaria una teologia politica dell’accoglienza. Egli afferma che l’amore autentico implica un ordine che disordina: l’altro non è nemico da respingere ma volto da riconosce- re. L’ordo amoris, in questa lettura, è spazio etico di inclusione, che fonda una cittadinanza ospitale. La fede non può mai giustificare il rifiuto sistematico del diverso, ma deve anzi spingere verso una conversione affettiva capace di ridefi- nire le frontiere dell’appartenenza Il confronto con la dottrina MAGA diventa uno scontro tra antropologie: l’homo clausus contro l’homo dialogicus.
In questa frattura si inserisce l’indirizzo didattico e pedagogico espresso nelle recenti Indicazioni ministeriali per l’insegnamento della storia, che sembrano segnare un’involuzione eurocentrica e nazionalista con una narrazione monodimensionale, fondata sull’idea di una civiltà italico-occidentale come matrice esclusiva. L’occidentalismo antipluralista implicito nel documento, secondo lo storico Franco Cardini, riduce la storia a strumento ideologico. Il postulato italico-occidentale come fondamento univoco, sospettano altri storici, come Vil- lerani e Scarpari, sarebbe espressione di una nostalgia dell’identico, che rifiuta la pluralità. Una simile impostazione tradisce la natura policentrica della storia italiana e ostacola la formazione di coscienze critiche capaci di abitare il mondo globale. Un’anacronistica insistenza sulla retorica patriottica, sottolinea Cardi- ni, semplificata nel richiamo a episodi letterari come quello della “piccola vedet- ta lombarda”, che risultano alieni all’immaginario delle nuove generazioni. Ernesto Galli Della Loggia ricorda orgogliosamente e a ben ragione che la democrazia è nata in Occidente. Ma è un errore trasformare questa genealogia in pretesa esclusiva. L’identità culturale va cercata, non imposta. Va raccontata, non idolatrata. Franco Cardini propone piuttosto un’identità ospitale: l’esem- pio degli italiani all’estero, fedeli a due mondi, è un modello di fecondità interculturale.
La Chiesa universale e il pensiero laico più maturo convergono su valori condi- visi: giustizia sociale, apertura all’altro, riconoscimento della diversità. La vera sfida non è tra credenti e non credenti, ma tra chi difende l’identità come for- tezza e chi la vive come relazione. In questa direzione, il pluralismo non è una concessione ma una condizione ontologica dell’umano. L’alterità non è acci- dente ma orizzonte.
Nell’epoca della cosiddetta “deriva identitaria”, la cultura occidentale viene oggi evocata come baluardo da presidiare contro l’avanzata del multiculturali- smo. Tuttavia, proprio all’interno di questa tradizione culturale che si vuole preservare con severità si cela una contraddizione profonda: ciò che oggi viene difeso come “valore dell’Occidente” – libertà, pluralismo, diritti individuali – rischia di essere negato da coloro che affermano di volerne garantire la purezza. Le correnti sovraniste, che si fanno interpreti di una presunta “autenticità occidentale”, operano una selezione ideologica e regressiva della memoria collettiva. Ignorano che la civiltà occidentale si è evoluta attraverso il conflitto e il confronto, l’apertura e l’ibridazione. L’universalismo dei diritti umani, oggi sbandierato come marchio dell’Occidente, è il frutto di lotte interne, spesso condotte contro lo stesso ordine dominante occidentale.
È proprio questa apertura che oggi viene aggredita, in nome di una nostalgia identitaria che si traduce in restrizione delle libertà religiose, politiche e civili. Il pluralismo, che dovrebbe essere la ricchezza dell’Occidente, viene trattato come minaccia. In nome della “tradizione”, si normalizza la censura, si delegittimano le minoranze, si limita la libertà d’espressione proprio nell’Occidente tradizio- nalmente liberale. .
Solo un Occidente consapevole delle sue contraddizioni e capace di ripensarsi alla luce dell’alterità potrà affrontare la crisi identitaria senza rinunciare alla propria anima. La civiltà occidentale è inclusiva solo se resta dinamica, auto- critica e aperta alla contaminazione. In caso contrario, l’illusione della gerarchia si tramuterà in autodistruzione.
Il cittadino, credente o laico, non deve difendere i confini del proprio io, ma aprire lo spazio di un “noi” ospitale. La civiltà dell’Occidente non si salva arroccandosi, ma mettendosi in discussione. Tra le macerie della nazione-for- tezza può nascere la città inclusiva: un luogo dove l’identità non è possesso, ma incontro. Solo una pedagogia della pluralità, fondata sulla conoscenza e sull’empatia, potrà fornire alle nuove generazioni gli strumenti per abitare un mondo interdipendente senza ricadere in ideologie regressiste. La scuola, ci ricorda Maurizio Scarpari, è il luogo privilegiato per avviare un nuovo immagi- nario della convivenza. Una responsabilità educativa e politica di fronte alle sfide globali del XXI secolo.
Nel quadro della crisi dell’identità plurale e della deriva gerarchizzante, l’intelligenza artificiale si impone come una delle sfide più radicali del nostro tempo. Lungi dall’essere una semplice tecnologia, essa rappresenta una nuova forma di potere, capace di modellare la realtà simbolica, politica e affettiva delle società contemporanee. Le potenzialità emancipative dell’IA – automazio- ne, supporto scientifico, inclusione digitale – sono evidenti. Tuttavia, in assenza di una governance etica condivisa, la stessa IA rischia di diventare un’arma micidiale in mano ai nuovi padroni del mondo: big tech, stati autoritari, élite militari e finanziarie. La sua capacità di sorveglianza, profilazione e predizione dei comportamenti rende possibile una forma di biopolitica algoritmica, in cui le identità sono ridotte a dati e il pluralismo a rumore di fondo.
Nel paradigma della nazione-fortezza digitale, l’IA può essere utilizzata per controllare i flussi migratori, schedare i dissidenti, manipolare l’informazione, alimentare bolle cognitive che rafforzano l’identità chiusa e il conformismo ideologico. I sistemi di riconoscimento facciale, i social network algoritmici, le piattaforme predittive di sicurezza convergono in un’architettura globale del sospetto, in cui l’alterità è costantemente filtrata, esclusa o riscritta.
In questo contesto, l’IA minaccia di cancellare l’identità nella sua dimensione relazionale, trasformandola in etichetta funzionale al mercato o al controllo. Il pluralismo non viene negato apertamente, ma svuotato dall’interno: tutto ciò che non rientra negli schemi di ottimizzazione viene scartato o silenziato. Si passa dalla pedagogia dell’inclusione a una intelligenza selettiva e gerarchica, in cui il valore dell’umano è subordinato alla sua tracciabilità.
Contro questa deriva si impone un’etica della tecnologia fondata su un principio di giustizia relazionale anche nell’infosfera. La teologia dell’accoglienza di Leone XIV e le intuizioni del pensiero laico più critico devono tradursi in una nuova grammatica dell’IA, che rifiuti la logica dell’efficienza assoluta e riconosca nella diversità il vero codice sorgente dell’umano.
(Salvatore Parlagreco, Le nuove frontiere della SCUOLA n. 69, 2025)








