«È come vivere in una casa imbottita di dinamite. Le pareti cominciano a esplodere e noi continuiamo a viverci.» Il Presidente degli Stati Uniti, nel cuore del film, lo dice con una calma spaventata. È il momento in cui “Una casa piena di dinamite”, il nuovo film di Kathryn Bigelow, smette di essere un thriller politico e diventa una parabola sul nostro tempo. Perché quella casa è l’America, ma anche il mondo. Un Titanic che avanza elegante e sicuro, mentre la prua già sfiora l’iceberg. Solo che, stavolta, l’iceberg è un missile nucleare. E la parabola ci fa entrare nel sancta sanctorum del potere, e ci fa scoprire una realtà surreale, ma vera, e ci fa toccare l’orrore d’Apocalisse che può esplodere ogni momento. La nostra impotenza, il loro potere di carta. Il cinema sembra fare il controcanto alla cronaca di questi giorni, che ci riferisce dello scambio di “intenzioni nucleari” fra Trump e Putin.
Tutto comincia con un tracciato radar. Un segnale che non dovrebbe esserci, e che invece si muove. I centri di controllo escludono l’errore, poi confermano: lancio ostile, impatto entro venti minuti. Venti minuti in cui il potere più potente del mondo scopre di non sapere da dove arrivi la minaccia. Russia? Cina? Iran? Corea del Nord? In quei venti minuti, la Casa Bianca diventa una nave che imbarca acqua e non può fermarsi.
Kathryn Bigelow – la regista di The Hurt Locker, Zero Dark Thirty, Detroit – non cerca la spettacolarità. Svuota un genere convenzionale e lo rovescia: il film non racconta l’esplosione, il terrore, l’angoscia, il disastro, ma l’attesa, il tempo che si deforma, il rumore del dubbio che cresce, Ogni personaggio vive lo stesso frammento di tempo da un’altra angolazione: la sala stampa, la stanza dei bottoni, la base di lancio, il sottomarino, i luoghi del potere, la quotidianità ignara. Tutti credono di avere il controllo, nessuno ce l’ha e lo scopre con sgomento, mentre vive una impossibile nomalità.
Il Segretario alla Difesa scopre che il bersaglio è Chicago, dove vive sua figlia. Un soldato, lasciato dalla moglie, deve premere il tasto dell’intercettore. Lo fa, ma piangendo. I due piani di realtà restano in piedi.
Il Presidente rimane solo, accanto a sé un tenente che non parla. Una solitudine disperata e disperante, che si specchia negli occhi del suo immobile ufficiale con la sua cartella dei lanci atomici. E in quel silenzio si sente l’intera fragilità di un sistema che ha costruito la propria forza sull’illusione dell’infallibilità.
Il film non racconta l’errore, ma la condizione dell’errore: l’impreparazione, l’incompetenza, perfino l’idiozia. Bigelow li mostra senza mai dichiararlo, lasciando che il montaggio, il suono, il tempo compresso lo rivelino. È un Titanic politico: la nave continua a ballare, i musicisti suonano, le luci restano accese. Ma la crepa è già lì, invisibile. E il Presidente lo sa: la casa – il potere, la democrazia, la civiltà ipercontrollata – è imbottita di dinamite, sta esplodendo mentre i potenti ci vivono.
Non è un film sulla guerra, ma sul suo fantasma. Non sull’atomica, ma sul pensiero dell’atomica. Bastano venti minuti per mettere a nudo la fragilità di una civiltà convinta di poter tutto. La finzione, in Una casa piena di dinamite, diventa più credibile della realtà. Non perché inventa, ma perché toglie: il rumore di fondo, la propaganda, e lascia soltanto l’essenza – il terrore di non sapere.
Guardandolo, si ha la sensazione di capire, per una volta, come stanno davvero le cose. Che il mondo non finirà per colpa di un gesto folle, ma di una catena di gesti normali. Che la verità non è mai nei comandi ufficiali, ma nei secondi di silenzio che li precedono. E che forse, mentre crediamo di abitare una casa sicura, siamo già sul ponte del Titanic – con un missile al posto dell’iceberg.