Vuole cambiare la storia, anzi, rifondarla. Donald Trump non si limita più a interpretarla: la falsifica, la capovolge, ne fa un’arma ideologica. Si è impossessato della macchina del tempo per trascinarci indietro, agli anni dell’apartheid, alla stagione in cui la forza era sinonimo di giustizia e il colore della pelle definiva il valore della vita.
È un progetto politico e simbolico insieme. La nuova frontiera americana non è l’innovazione, ma la regressione. Deportazioni violente — documentate da giornalisti, anche italiani, nelle metropoli statunitensi — mostrano la brutalità di una visione che considera l’umanità stessa una variabile burocratica.
Gli Stati Uniti, costruiti sull’emigrazione e sulla deportazione di milioni di africani ridotti in schiavitù, oggi diventano il laboratorio di una restaurazione morale: quella della supremazia bianca come ordine naturale. Trump ha ridotto gli ingressi di rifugiati da 125 mila a 7.500 l’anno. Non per emergenze di sicurezza, non per ragioni economiche m per regalare un privilegio simbolico. Ha riservato ai bianchi sudafricani — gli afrikaner, eredi diretti di chi costruì l’apartheid — la quota più ampia di ingressi. Il paradosso è completo: chi un tempo opprimeva, oggi viene accolto come perseguitato.
Quando il presidente del Sudafrica gli ricordò che non esiste alcun “genocidio bianco”, Trump non ritrattò. Perché la verità, nel suo lessico politico, non è mai un fatto: è una proprietà privata. È il punto di vista di chi detiene il potere e dispone della voce più potente per imporre la verità. E’ un revisionismo storico avente forza di legge.
Dietro l’ideologia del privilegio non si nasconde neppure una finzione umanitaria. Gli afrikaner non fuggono dalla fame né dalla miseria. Non cercano rifugio, ma trovano un premio: il riconoscimento simbolico di una presunta superiorità etnica, come ragione di un privilegio razziale. È un atto di revisionismo morale, un colpo di spugna sull’apartheid, una damnatio memoriae contro il principio che aveva ispirato Nelson Mandela e il Sudafrica post-razzista: che la giustizia riparatrice fosse possibile, che la dignità potesse essere restituita.
Oggi quella lezione viene umiliata. E ciò che un tempo mobilitò le coscienze del mondo intero — l’idea di uguaglianza, la battaglia contro la segregazione — viene deriso come sentimentalismo. La storia, violentata, diventa propaganda.
Ma la cosa più grave non è solo ciò che accade oltre l’Atlantico. È il silenzio complice che risuona al di qua dell’oceano. L’Europa — e in particolare l’Italia, così solerte nel proclamare “amicizia” verso Washington — tace. A Palazzo Chigi non trapela indignazione né stupore. Come se la discriminazione, una volta travestita da politica migratoria, smettesse di essere un crimine morale. Anzi offre nuovi strumenti alla antica politica di esclusione, protetta da leggi che trasformano ogni migrante in un clandestino.
Eppure è in questo silenzio che si misura la nostra decadenza civile. Perché accettare il ribaltamento della storia, fingere che non ci riguardi, significa rinunciare a ogni idea di giustizia.
Significa, ancora una volta, lasciar vincere chi possiede la forza per mentire.






