L’industria è in difficoltà ma è fuori dall’agenda politica. Rappresenta ancora circa il 20 per cento del prodotto interno lordo (pil) ed è uno dei principali motori economici del paese, comprendendo atti- vità manifatturiere, estrattive e di produzione di energia. L’industria manifatturiera in particolare gioca un ruolo centrale, rendendo l’Italia una delle principali potenze industriali in Europa. Negli ultimi anni, il settore ha dovuto affrontare sfide significative, tra cui la concorrenza internazionale e la necessità di adattarsi a nuove tecnologie e strategie di sostenibilità. Marco Bentivogli, ex Segretario della Cisl, (Il Foglio, 1.10.24) nell’incipit del suo articolo ,ci regala una osservazione su cui siamo obbligati a riflettere: nonostante il cattivo stato di salute, l’industria è fuori dall’agenda politica. Ma c’è di più: la comunicazione del governo ci offre una visione opposta: meglio di così non potrebbe andare. Non maschera la realtà per non perdere consensi, ma per giustificare la sua latitanza. Tattica, dunque, dettata dal bisogno di tenersi stretto il favore dell’elettorato, piuttosto che una strategia che faccia uscire il paese da una condizione paralizzante.
L’Italia è la seconda potenza manifatturiera in Europa, dopo la Germania, eppure le sfide che questo comparto affronta da anni vengono spesso trascurate nei discorsi pubblici e nelle strategie governative. Il governo sta dipingendo una realtà distorta, proclamando una ripresa che in realtà non c’è. Questa retorica ottimistica non mira tanto a rassicurare il pubblico, quanto piuttosto a giustificare l’inattività politica verso un settore che da troppo tempo soffre in silenzio.
Negli ultimi anni, l’industria italiana ha dovuto affrontare un contesto globale in rapida evoluzione. La concorrenza internazionale si è intensificata, specialmente da parte di paesi con costi di produzione notevolmente inferiori. A ciò si aggiungono le esigenze imposte dalla transizione ecologica e dall’innovazione tecnologica, che richiedono ingenti investimenti in ricerca e sviluppo, automazione e digitalizzazione dei processi produttivi. Secondo l’ISTAT, tra il 2010 e il 2020 il settore manifatturiero ha perso circa il 12% del suo valore aggiunto, passando da una produzione industriale che nel 2007 rappresentava il 23% del PIL al 20% odierno. Il declino è stato accelerato dalla crisi economica del 2008, dalla pandemia di Covid-19 e dalle recenti difficoltà energetiche, che hanno visto molte aziende italiane soffrire a causa dell’aumento dei costi delle materie prime e delle energie.
Nonostante l’Italia sia ancora una forza trainante in settori come la moda, l’automotive e la meccanica di precisione, i segnali di una crisi strutturale sono evidenti. Il saldo commerciale dell’industria manifatturiera ha infatti subito un forte rallentamento, con esportazioni che faticano a mantenere i livelli pre-pandemia. D’altra parte, la crescita del debito pubblico e l’incertezza politica hanno ridotto la capacità dello Stato di sostenere adeguatamente le imprese.
La mancata centralità del settore industriale nelle discussioni politiche è preoccupante. Come evidenzia Bentivogli, si tratta di un sintomo di una miopia politica che non tiene conto dell’importanza della pianificazione a lungo termine. Il governo, anziché affrontare i nodi strutturali dell’economia, sembra più concentrato sulla ricerca di consenso immediato. L’industria ha bisogno di un piano di rilancio che metta al centro non solo l’innovazione e la sostenibilità, ma anche una strategia di formazione del capitale umano. Senza investimenti in competenze digitali, le imprese italiane rischiano di perdere ulteriore terreno rispetto ai competitor europei e mondiali.
L’esperienza tedesca del Mittelstand ,il tessuto di piccole e medie imprese che rappresentano il cuore dell’industria della Germania, è significativa. Mentre in Italia il supporto alle PMI è rimasto spesso inefficace e frammentato, il governo tedesco ha saputo sviluppare politiche mirate e coerenti, promuovendo la transizione tecnologica e stimolando l’innovazione in maniera continua e integrata. Questa strategia ha consentito alla Germania di mantenere la sua posizione di leadership in Europa, a differenza dell’Italia, che continua a subire una lenta ma inesorabile erosione della propria competitività industriale.
Se il governo italiano vuole davvero far uscire il Paese da questa fase di stagnazione, dovrà adottare un approccio più proattivo, orientato al lungo termine. La transizione ecologica e digitale non può essere vista come un costo, ma come un’opportunità. Occorre incentivare le imprese a investire in nuove tecnologie, energie rinnovabili e modelli produttivi sostenibili, seguendo l’esempio di paesi come la Svezia, che ha fatto dell’innovazione sostenibile il perno della propria strategia industriale.
Dati recenti della Commissione Europea indicano che entro il 2030 circa il 75% delle imprese dovrà implementare tecnologie digitali avanzate per rimanere competitive sul mercato globale. L’Italia, che attualmente si trova al di sotto della media europea in termini di digitalizzazione industriale, rischia di rimanere indietro se non verranno prese misure concrete e tempestive per colmare il ritardo. Senza un cambio di rotta deciso da parte della politica, il declino rischia di diventare irreversibile. Piuttosto che narrazioni ottimistiche si affrontino i problemi strutturali con coraggio e visione. L’industria ha bisogno di tornare al centro dell’agenda politica.