Non sa perché. O forse lo sa, indistintamente. Lo opprimevano. Il diciassettenne che uccide a coltellate il fratello minore, la madre ed il padre, a pochi giorni dall’assassinio di Sharon Verzeni, sembra un’altra “stazione” di un percorso del male. Il male che oltre a uccidere si preoccupa di lasciarci senza fiato: ci nasconde la causa del delitto, ci vieta di capire, di dare un senso al crimine. Il “famiglicidio” di Paderno Dugnano ha il suono di una campana a morto.
Non c’è un mistero da svelare, un assassino da scoprire. C’è l’orribilità, intollerabile, del nulla da contestare. Giusto interrogarsi, giusto affrontare il nulla che arma la mano dell’assassino, ragionare, cercare, ipotizzare, per non soccombere alla disumanità spoglia e atroce. Lo fanno analisti ed esperti, giornalisti, uomini di chiesa e inquisitori per professione. Giusto leggerli, ascoltarli, misurarci con le loro opinioni. Sul banco degli imputati di un improbabile processo al Male c’entra la rabbia inespressa, l’obnubilamento improvviso, il delirio dell’estraniamento, il disagio, le relazioni tossiche. E’ come affrontare fantasmi sulla scena di un teatro dell’orrido, come affondare i piedi (e la testa) nella palude limacciosa dell’ignoto.
Riferisco il punto di vista di una psicologa, e quindi estranea al day-after della strage. La psicologa Elena Benvenuti (VANITY FAIR, 31 AGOSTO 24), in un breve saggio scritto alla vigilia del “famiglicidio, affronta una condizione perturbante, la rabbia repressa: “…un’emozione potente che, invece di essere riconosciuta, espressa e gestita in maniera sana, viene inconsciamente soppressa o ignorata. Questo fenomeno avviene spesso quando una persona percepisce la rabbia come inaccettabile o minacciosa, sia per la propria identità che per le proprie relazioni interpersonali. Dal punto di vista psicologico, la rabbia repressa rappresenta una dinamica di evitamento, in cui l’individuo nega o sopprime i propri sentimenti di frustrazione, irritazione o collera per mantenere una facciata di controllo o di armonia esterna. Tuttavia, questa soppressione emotiva non fa affatto sparire la rabbia, ma la accumula, spesso spostandola nel subconscio e causando tensione interna. Ecco che allora la rabbia repressa può manifestarsi attraverso sintomi somatici, disturbi emotivi o comportamenti disfunzionali».
Sarebbe questo il contesto in cui si compie il famiglicidio?
Agli antipodi, o forse no, l’analisi del giornalista, che ha “studiato” i fatti di sangue, Gianluigi Nuzzi, che affonda il bisturi nell’abisso della lacerante convivenza di amore ed odio che permea le relazioni famigliari: “…il figlio unico che perde il monopolio affettivo con l’arrivo di un fratello può degenerare nella convinzione crescente di una preferenza a suo danno, amplificando così il complesso di Caino che arma la mano e uccide. Sia il fratello che i genitori, corresponsabili di quest’alterazione dell’equilibrio domestico, divenuti nuovi nemici dopo essere stati adorati….”
Quanto alla salute mentale, alla coscienza colpevole dell’assassino, Vito Mancuso (La Stampa, 2 sett.24), teologo laico e autore di memorabili saggi, pone una domanda che strappa alla giustizia il diritto-dovere di punire: “Si può forse sostenere con sicurezza che l’uccisione di ieri a Paderno Dugnano sia stata voluta da parte del diciassettenne che l’ha compiuta?”. “Anche se fosse premeditata non attesta necessariamente l’esplicita volontà, si può essere “…il figlio unico che perde il monopolio affettivo di obnibulamento e cominciare a non essere più padroni di se stessi ma in preda al delirio (o al demonio) non solo nell’atto ma ne concepirlo.”
Il Male ha creato gli strumenti per non essere riconosciuto né punito?
Il disagio degli esperti è il riflesso di quello dei protagonisti.
Essendo l’assassino diciassettenne e le le sue vittime componenti di una famiglia italianissima, ci viene risparmiata l’orribile speculazione politica sulle origini (territoriali, etniche, religiose…) degli assassini. Ma non è una consolazione.
 
			 
			






