Le dimissioni di un Ministro della Repubblica, Sangiuliano, non sono passate al vaglio del Parlamento e del Governo. E’ la conferma di una tendenza irreversibile. Le sedi istituzionali – il Parlamento, i tribunali – sono stati espropriati dai network e dai social, X e Instagram in testa. Il dibattito parlamentare, peraltro, è scontato a causa della rigidità delle posizioni politiche, mentre il processo, nelle aule dei tribunali, assai raramente crea aspettative di eclatanti.La notizia ha effettuato, ormai da tempo, i fatti, che nascono nel corso di un talk show o con un “post”. Le campagne mediatiche nutrono l’interesse del pubblico, e quando “il fatto”, politico o giudiziario, arriva nelle istituzioni l’audience, o lo share, vengono mantenuti solo dagli addetti ai lavori. Quanto nuove questa conversione mediatica alla democrazia?
Viviamo in un’epoca in cui le istituzioni tradizionali, come il Parlamento e i tribunali, sembrano aver perso il loro ruolo centrale nel dibattito pubblico, sostituite dai network televisivi e dai social media. X (ex Twitter) e Instagram, in particolare, hanno preso il controllo dello spazio pubblico, offrendo una nuova piazza virtuale dove opinioni, accuse e proclami trovano un’immediata diffusione, molto spesso prima che la politica o la giustizia possa intervenire. Questo fenomeno è tanto radicale quanto complesso, e la sua influenza sulla democrazia contemporanea solleva interrogativi importanti.
Oggi, la notizia non segue più il fatto, ma lo precede. Accuse, decisioni politiche e persino verdetti di tribunale nascono più frequentemente nelle pagine dei social o nei talk show televisivi che nelle aule istituzionali. I processi mediatici diventano il primo tribunale a cui si sottopongono le questioni, tanto politiche quanto giudiziarie, con una rapidità e una potenza di diffusione che le istituzioni tradizionali non possono uguagliare.
Questa dinamica ha cambiato profondamente il modo in cui la politica e la giustizia vengono percepite. Le campagne mediatiche, create e diffuse con post o dichiarazioni in diretta, costruiscono narrazioni capaci di catturare l’attenzione del pubblico ben prima che i fatti raggiungano l’aula del Parlamento o la corte di giustizia. Il pubblico viene tenuto in sospeso, affamato di ulteriori sviluppi, in un ciclo continuo di aspettativa che finisce per alimentare se stesso. Quando finalmente i fatti entrano nelle istituzioni, queste non fanno altro che prolungare l’audience o lo share creato dai media stessi.
In questo contesto, il Parlamento e i tribunali appaiono sempre più irrilevanti agli occhi del pubblico. Il dibattito parlamentare è spesso rigido, prevedibile, polarizzato. Le posizioni dei partiti sono ormai cristallizzate, e le discussioni si risolvono in scontri verbali che difficilmente spostano l’opinione pubblica. Il processo parlamentare non crea più un senso di attesa o di suspence, perché il pubblico ha già visto il “film” sui social media: sa già chi sono i buoni e i cattivi, ha già espresso giudizi e scattato sentenze.
Anche il sistema giudiziario soffre di un fenomeno simile. I tribunali, con i loro tempi lunghi e le procedure complesse, raramente riescono a creare lo stesso livello di dramma e tensione che viene invece alimentato nei media. L’opinione pubblica ha già sentenziato, e le decisioni formali, se non corrispondono a quelle mediatiche, rischiano di essere percepite come ingiuste o inadeguate. In questo modo, la giustizia perde la sua forza persuasiva e il suo ruolo di arbitro finale.
Questa “conversione mediatica” della democrazia non è priva di rischi. Da un lato, la capacità dei social media di coinvolgere direttamente i cittadini nel dibattito pubblico offre nuove opportunità di partecipazione e di controllo del potere. Dall’altro, però, c’è il pericolo che la velocità e la superficialità delle informazioni scambiate sui social creino una democrazia emotiva, dove le opinioni vengono formate sulla base di emozioni e percezioni immediate, piuttosto che su fatti e riflessioni ponderate.
Le campagne mediatiche, infatti, non sempre seguono una logica di verità e giustizia. Spesso, sono dettate da interessi di parte, alimentate da algoritmi che premiano il sensazionalismo e il conflitto, piuttosto che il confronto razionale. Questo trasforma la democrazia in una sorta di “democrazia dello spettacolo”, in cui ciò che conta non è tanto la solidità delle idee, ma la capacità di fare rumore, di generare like, retweet, visualizzazioni.
Le istituzioni devono quindi confrontarsi con una sfida epocale. Per riconquistare il loro ruolo centrale, devono trovare un modo per rimanere rilevanti in un mondo in cui la comunicazione è dominata da ritmi frenetici e opinioni fugaci. La politica e la giustizia non possono ridursi a spettacolo: devono riaffermare la loro funzione di guida e di garanzia per una società democratica.
Una possibile risposta potrebbe essere quella di recuperare il tempo della riflessione, della discussione approfondita e del dialogo costruttivo. Le istituzioni potrebbero aprirsi maggiormente ai cittadini, utilizzando i nuovi media non per adeguarsi ai loro ritmi, ma per creare spazi di confronto più autentici e partecipativi. Solo così sarà possibile contrastare la tendenza alla spettacolarizzazione e restituire alla democrazia la sua dimensione deliberativa, basata su un confronto reale tra posizioni diverse e sul rispetto delle istituzioni.
La conversione mediatica della democrazia è un fenomeno complesso, che ha trasformato profondamente il rapporto tra cittadini e istituzioni. La sfida per il futuro è trovare un equilibrio tra l’immediatezza e la partecipazione offerta dai social media e la profondità e la serietà che dovrebbero caratterizzare il dibattito democratico. Le istituzioni non possono permettersi di restare spettatrici di questo cambiamento: devono rispondere, con intelligenza e coraggio, per garantire che la democrazia non si riduca a un semplice spettacolo.
