Quando si parla di democrazia, uno degli ingredienti fondamentali è senza dubbio il voto. Un gesto che, sebbene sia ormai relegato alla banalità di un’urna e di una scheda di carta, rappresenta l’espressione massima di un potere conferito al cittadino. Eppure, negli ultimi decenni, questo rito civico che un tempo accendeva passioni, barricate ideologiche e dibattiti infiniti nelle piazze, sembra aver perso gran parte del suo fascino.
Il fenomeno della “desertificazione delle urne” – per usare un’immagine suggestiva – è diventato una costante nel panorama politico italiano, e non solo. Siamo passati dall’epoca in cui ogni voto sembrava pesare come una pietra preziosa nella bilancia della democrazia, a una fase in cui l’astensione è così diffusa che pare non faccia più notizia. Certo, potremmo consolarci osservando che il calo dell’affluenza non è un’anomalia esclusiva italiana, ma è parte di un trend globale che riguarda anche democrazie ben più consolidate come quella statunitense. Tuttavia, non possiamo sottrarci alla domanda: perché questo disincanto? E soprattutto, quale futuro ci riserva una democrazia dove il “voto di chi non conta” diventa sempre più centrale?
L’analisi del fenomeno non può limitarsi al semplice conteggio delle schede mancate. Le percentuali di astensione non sono altro che il sintomo di una malattia più profonda. Da una parte, abbiamo assistito alla fluidità politica, quella che sposta milioni di voti in pochi anni, facendo salire e crollare partiti come castelli di sabbia. Dall’altra, troviamo l’apatia dell’elettorato, che ormai non trova più negli attori politici alcuna attrazione, o peggio, non riconosce in essi alcuna differenza.
Per comprendere appieno il fenomeno, è necessario un piccolo excursus storico. Fino a qualche decennio fa, la partecipazione elettorale era altissima. La democrazia, giovane e fragile, sembrava essere il baluardo contro un ritorno al passato, un dovere civico ineludibile. Le file ai seggi erano lunghe, le discussioni accese, e persino il mezzo punto percentuale spostato nelle urne aveva il sapore di un colpo di scena politico.
Oggi, a meno di eventi eccezionali, il voto è diventato un gesto meccanico, per alcuni persino superfluo. Molti preferiscono restare a casa, delegando ai pochi che votano una scelta che, in teoria, dovrebbe riguardare tutti. “Chi non vota ha sempre torto”, si diceva una volta, con quella retorica che mascherava un sottile senso di colpa. Oggi, invece, si potrebbe dire che “chi vota ha forse più torti di chi se ne disinteressa”, se si guarda alle esperienze degli ultimi anni.
La colpa di questo disamore generalizzato non può essere affibbiata esclusivamente all’elettore, troppo spesso additato come pigro o disinformato. I protagonisti principali della disaffezione sono altrove: nella classe politica stessa, che ha saputo trasformare la democrazia in un teatro dove il populismo e l’opportunismo sono gli attori principali.
Da un lato, c’è il populismo, con la sua retorica semplice e accattivante, che promette soluzioni facili a problemi complessi. Il populista non si preoccupa di offrire una vera alternativa, ma solo di cavalcare il malcontento. E questo, nel breve termine, funziona benissimo: i voti si spostano come fiumi in piena, i partiti esplodono in sondaggi trionfali, e poi? Poi, il vuoto. La democrazia non si nutre di promesse vane, e l’elettorato si disincanta rapidamente, abbandonando l’urna non per noia, ma per sfinimento.
Dall’altro lato, ci sono i comportamenti delle istituzioni, o meglio di coloro che le rappresentano. Invece di rinforzare le fondamenta democratiche, le classi dirigenti sembrano impegnate a logorare il sistema dall’interno, minandone la credibilità e il rispetto. Si parla spesso di “crisi delle istituzioni”, ma forse sarebbe più corretto parlare di “crisi di fiducia”. Chi dovrebbe difendere la democrazia si perde in giochi di potere, scandali e promesse non mantenute, e l’elettore, stanco, semplicemente si volta dall’altra parte.
Se la tendenza è questa, che ne sarà della nostra democrazia? Un sistema dove la partecipazione si riduce a una minoranza attiva e una maggioranza apatica è una democrazia monca, debole, incapace di rappresentare davvero il popolo che pretende di governare. La retorica del “voto è potere” si sgretola di fronte alla realtà dei fatti: il vero potere, oggi, sembra essere nelle mani di chi sa gestire meglio il malcontento, più che in quelle di chi sa rappresentare un progetto politico credibile.
Ironia della sorte, chi non vota non rinuncia al potere. Piuttosto, lo delega implicitamente a chi continua a farlo. La scelta di non scegliere è anch’essa una scelta, sebbene poco giudiziosa. Forse l’astensione è una forma di protesta silenziosa, una manifestazione di disprezzo verso un sistema che non sembra più in grado di rispondere ai bisogni del cittadino. Ma una protesta che non trova espressione nelle urne rischia di essere tanto inefficace quanto un grido nel vuoto.
E allora, quale è il rimedio a questa malattia? Forse dovremmo iniziare da un ripensamento della politica stessa. Meno populismo, meno promesse vuote, e più visione a lungo termine. La democrazia, per sopravvivere, ha bisogno di partecipazione, ma soprattutto di fiducia. Solo ricostruendo quest’ultima possiamo sperare di riportare l’elettore al centro della scena.
Nel frattempo, chi non vota continuerà a fare il suo silenzioso corteo verso l’irrilevanza. Ma attenzione: ogni voto non dato, ogni scelta non fatta, è un pezzo di democrazia che rischiamo di perdere per strada. Forse, alla fine, saranno proprio coloro che oggi non contano a fare la differenza.








