Fra i carri armati sovietici che invasero l’Ungheria per reprimere la rivolta ungherese anticomunista e i carri armati russi di Putin che hanno invaso l’Ucraina ci sono tratti comuni? E quali? Fra i carristi di ieri, comunisti italiani (con alcune dissidenze), e i carristi di oggi, che attribuiscono alle provocazioni occidentali la guerra d’invasione russa, numerosi sia a destra che a sinistra, ci sono diversità rilevanti? E come spiegare le posizioni opposte fra i due paesi europei che fecero parte del blocco sovietico, l’Ungheria di oggi, filorussa, e l’Ucraina, che combatte contro gli invasori russi? Sono questioni che ci interrogano, come italiani ed europei, perché potrebbero svelare le profonde mutazioni della politica italiana.
L’invasione sovietica dell’Ungheria nel 1956 e quella russa dell’Ucraina nel 2022 sono eventi separati da decenni, ma condividono alcune motivazioni comuni e strutturali, radicate nella volontà di mantenere o ristabilire il controllo su paesi che l’orbita russa considerava, e considera tuttora, fondamentali per la propria sicurezza e influenza geopolitica. Tuttavia, i contesti storici, politici e ideologici differiscono profondamente, riflettendo le trasformazioni del mondo e delle stesse strutture di potere in Russia.
Nel 1956, l’invasione sovietica dell’Ungheria fu una risposta alla rivolta popolare contro il regime comunista illiberale, satellite dell’Unione Sovietica. La rivolta minacciava di destabilizzare non solo l’Ungheria, ma l’intero blocco orientale, alimentando spinte indipendentiste. Per i dirigenti sovietici, mantenere l’Ungheria sotto controllo era essenziale per salvaguardare la coesione del Patto di Varsavia e prevenire la diffusione di disordini in altri paesi dell’Europa orientale.
Allo stesso modo, nel 2022, l’invasione russa dell’Ucraina è stata giustificata con la necessità di proteggere la “sfera d’influenza” russa dalle crescenti influenze occidentali. Il progetto di espansione della NATO, percepito da Mosca come una minaccia diretta ai suoi interessi strategici, e la progressiva europeizzazione dell’Ucraina hanno spinto Putin a intervenire militarmente per riportare il paese nell’orbita russa. In entrambi i casi, quindi, l’obiettivo primario è stato il mantenimento del controllo su territori considerati essenziali per la sicurezza strategica della Russia.
Se l’invasione sovietica dell’Ungheria avvenne nel quadro della Guerra Fredda, in cui il mondo era rigidamente diviso in due blocchi ideologici contrapposti — comunismo e capitalismo — l’invasione dell’Ucraina è avvenuta in un contesto ben diverso. La Russia di Putin non si propone come una potenza comunista, bensì come un’autocrazia nazionalista che vede nell’Occidente liberale un nemico ideologico e politico, capace di minare il suo potere. Inoltre, mentre nel 1956 l’Unione Sovietica agiva per mantenere in piedi un sistema ideologico globale, oggi la Russia di Putin agisce per rafforzare il proprio regime interno e riaffermare la propria influenza regionale, in un mondo multipolare in cui non esiste più una divisione chiara tra Est e Ovest.
Uno degli elementi più interessanti nel confronto tra il 1956 e il 2022 è il ritorno, simbolico e materiale, dei “carristi” — coloro che giustificano e supportano l’intervento militare russo. Se nel 1956 una parte consistente della sinistra italiana (e europea) approvava, o quantomeno tollerava, l’intervento sovietico come una necessità per salvaguardare il progetto socialista, oggi, il sostegno o l’indulgenza verso l’invasione russa proviene da settori tanto della destra quanto della sinistra. Tuttavia, le ragioni di questo sostegno sono cambiate: non più la difesa di un ideale comunista, ma una variegata miscela di anti-americanismo, scetticismo verso la globalizzazione, e in alcuni casi, vicinanza ideologica all’autoritarismo nazionalista di Putin.
Questa differenza è sostanziale. I “carristi” del 1956 vedevano nell’Unione Sovietica la realizzazione concreta di un progetto politico alternativo al capitalismo, e consideravano la repressione delle rivolte anticomuniste come un male necessario per preservare l’integrità del blocco socialista. I “carristi” di oggi, al contrario, tendono a giustificare l’aggressione russa con argomenti più pragmatici, spesso incentrati sulla critica all’imperialismo occidentale, più che sulla difesa di una chiara ideologia alternativa. Allo stesso tempo, sono accomunati da una diffidenza nei confronti del ruolo internazionale dell’Occidente, visto come destabilizzante e ipocrita.
Una delle differenze più evidenti rispetto al 1956 riguarda i rapporti di forza e le alleanze all’interno dell’Europa stessa. L’Ungheria, allora oppressa dal giogo sovietico e al centro di una rivolta che cercava di rompere quel dominio, è oggi l’unico stato membro dell’Unione Europea a mantenere relazioni amichevoli con la Russia di Putin. Questo paradosso è il risultato di anni di politiche nazionaliste e illiberali perseguite dal governo di Viktor Orbán, che ha costruito un’alleanza politica e ideologica con la Russia, in opposizione ai valori democratici e liberali promossi dall’UE.
L’Ucraina, al contrario, che nel 1956 era una parte integrante dell’Unione Sovietica, si trova oggi in prima linea nella lotta contro l’espansionismo russo, impegnata in una resistenza eroica che la pone come baluardo delle aspirazioni democratiche e filo-occidentali in Europa orientale. Questa inversione dei ruoli sottolinea la complessità delle dinamiche post-sovietiche, in cui vecchie alleanze si sono disintegrate e nuovi schieramenti hanno preso forma.
L’analisi delle due invasioni e delle rispettive giustificazioni mette in luce sia le continuità che le discontinuità nella politica estera russa. Se la logica geopolitica del controllo delle sfere d’influenza è rimasta pressoché invariata, i contesti ideologici e le risposte politiche all’interno dell’Europa sono profondamente cambiati. I “carristi” di oggi, distribuiti trasversalmente tra destra e sinistra, esprimono una critica all’ordine mondiale occidentale piuttosto che un sostegno a un progetto ideologico alternativo. Il ritorno dei carri armati russi nei paesi ex-sovietici rappresenta non solo un fallimento del dialogo diplomatico, ma anche la riaffermazione brutale di una concezione della sovranità e del potere che non si è mai completamente estinta.