La percezione non funziona a compartimenti stagni, osserva Andrea Barchiesi, (Prima Comunicazione, ottobre 2024). Da un lato la stampa e la TV, e dall’altro i social. Quando si fanno questi distinguo mi torna sempre in mente un romanzo, Flatland, in cui il protagonista è un quadrato che vive in un mondo bidimensionale. La sua realtà è piatta come i suoi paradigmi analitici. Vive la sua vita ritenendo che la realtà sia quella che osserva superficialmente, finché un giorno non incontra nel suo mondo una sfera. La percezione è una sfera. La Rete è un unico medium onnicomprensivo e assolutamente permeabile: da qui passa e si costruisce la percezione degli eventi.
E mentre parliamo di percezione, ci imbattiamo inevitabilmente nei terrapiattisti, quei nostalgici dell’antico tolemaico che ancora non hanno dato udienza a Galileo. Questi moderni abitanti di Flatland, difensori di un mondo piatto e immutabile, sono la manifestazione vivente di una cecità che Platone descrisse con sconcertante precisione. La sua Caverna, oggi, ha subito un restyling; non più umida e buia, ma trasformata in un boutique hotel di lusso per gli ignari abitanti dell’era digitale. E chi può biasimarli? Nel comfort della loro ignoranza, ogni ombra diventa realtà e ogni sussurro assume la gravità di una rivelazione cosmica.
E così ci ritroviamo, noi che amiamo sondare la complessità del mondo, a convivere con questi archetipi che, come eleganti sonnambuli, camminano sulla superficie piatta della loro percezione. Come osservò Pirandello, “così è, se vi pare.”, noi vediamo ciò che ci è conveniente vedere, e ascoltiamo solo ciò che ci è gradito ascoltare. Forse, potremmo aggiungere con un sorriso, i terrapiattisti hanno semplicemente scelto di non complicarsi la vita con l’onere della tridimensionalità. Un atto di volontà? Una forma di minimalismo intellettuale? In fondo, ogni epoca ha i suoi anacronismi. La nostra, immersa nel trionfo del sapere digitale e delle connessioni globali, riesce ancora a tenere in vita questi antichi abitanti del mondo bidimensionale.
Forse, come osservava Mark Twain, “Non è ciò che non sappiamo a metterci nei guai, ma ciò che di sicuro crediamo di sapere e che, in realtà, non è vero.” E così, ci troviamo circondati da convinzioni tanto ferme quanto prive di fondamento, da una massa di individui che, con la sicurezza di un capitano al timone, attraversano le acque piatte della loro percezione senza mai rendersi conto del mare profondo che si estende sotto di loro.
L’analisi dei post sui social più affollati conferma questa tendenza: si osserva una crescita esponenziale di terrapiattisti ancestrali, archetipi di un’umanità che si integra quel tanto che basta per non sollevare sospetti, ma che in fondo rimane fedele alla sua terra piatta e invariabilmente orizzontale. Sono gli eredi dei marinai di Colombo che temevano il baratro ai confini del mondo; solo che oggi, il loro oceano è digitale e l’abisso che temono è fatto di algoritmi, onde di informazioni che non riescono a dominare.
Ma forse, è proprio questo che ci rende tutti in qualche modo terrapiattisti. Chi non ha mai sperimentato, anche solo per un momento, la tentazione di ritrarsi nel confortevole mondo bidimensionale della propria interpretazione? Chi non ha mai evitato la complessità, scegliendo di restare al sicuro nella propria Flatland personale? Come diceva Oscar Wilde, “La vita è troppo importante per essere presa sul serio.” Ma anche troppo complessa per essere osservata con occhi piani.