Nel panorama politico italiano, il conflitto fra la concezione parlamentare del partito costituzionale e la visione governocentrica del partito personale è ormai entrato nel suo quarto decennio, trovando nuove e pericolose conferme nel presente. Ciò che aveva trovato terreno fertile nei governi di Silvio Berlusconi, con l’ascesa di una leadership fortemente accentratrice, è ora divenuto la base fondante del centrodestra a guida Meloni, la cui ambizione dichiarata è una riforma costituzionale che introduca un sistema presidenziale. Questa evoluzione, tutt’altro che casuale, appare il culmine di una lunga marcia volta a relegare il Parlamento a un ruolo sempre più marginale, e a esaltare una figura di governo che si avvicina pericolosamente al concetto dell’”uomo solo al comando”. La democrazia parlamentare paga lo scotto dei turni precari di alleanze e maggioranze striminzite, che pretendevano voti di fiducia, uso assiduo di maxiemendamenti e decreti leggi dell’esecutivo. La spinta al cambiamento “di regime” è stata forte e coerente.
La questione non è puramente tecnica, né è una mera disputa tra modelli istituzionali. Al contrario, è una battaglia sul senso stesso della democrazia e della sovranità popolare. Da una parte, vi è la concezione parlamentare, che si fonda sulla rappresentanza e il bilanciamento dei poteri, pilastri della democrazia liberale. Dall’altra, l’idea che la stabilità governativa e l’efficacia dell’azione politica possano e debbano essere garantite dalla concentrazione del potere in un esecutivo forte, snellendo o addirittura neutralizzando gli altri organi di controllo.
Se è vero che l’instabilità parlamentare, con governi fragili e instabili alleanze, ha spesso paralizzato il sistema italiano, va riconosciuto che la deriva governocentrica potrebbe rappresentare una cura che rischia di essere peggiore della malattia. La centralizzazione del potere nell’esecutivo, con il conseguente svuotamento del ruolo del Parlamento, mina non solo la democrazia rappresentativa, ma introduce una pericolosa forma di verticalizzazione del potere che è stata, in altre epoche e in altri contesti, l’anticamera di regimi autoritari.
L’Italia di oggi rischia di incamminarsi su un sentiero costellato di pericoli, dove la figura del leader si trasforma progressivamente da garante della stabilità a perno unico del sistema politico, riducendo i margini del pluralismo. La riforma costituzionale che il governo Meloni propone non è solo una questione di struttura istituzionale, ma riguarda il destino stesso della democrazia italiana. Il passaggio a un sistema presidenziale potrebbe, infatti, eliminare quel delicato equilibrio che impedisce l’abuso di potere e preserva la separazione dei poteri, pilastro fondamentale di ogni Stato di diritto. Tuttavia, i rischi di una tale concentrazione del potere devono essere considerati nella loro interezza. Se da un lato potrebbe sembrare una soluzione rapida e definitiva a molti dei problemi della nostra democrazia, dall’altro rischia di compromettere irrimediabilmente la pluralità e la capacità di rappresentanza del nostro sistema politico.
Non si tratta di una critica preconcetta a modelli presidenziali, che in molti Paesi funzionano, ma della consapevolezza che la loro applicazione in un contesto come quello italiano, storicamente segnato da divisioni e forti personalismi politici, potrebbe portare a un esito imprevedibile. La tentazione dell’uomo forte, incarnata oggi in alcune derive autoritarie presenti anche all’interno dell’Unione Europea, sembra fare leva su una società disillusa e affaticata da decenni di instabilità.
L’erosione del ruolo del Parlamento, ridotto a semplice camera di ratifica delle decisioni governative, e l’introduzione di un modello in cui il Presidente diventa il baricentro del sistema democratico, potrebbero trasformare una fragile democrazia parlamentare in una forma mascherata di oligarchia.
La democrazia non è solo un concetto formale, ma si nutre di una pluralità di voci, di un confronto aperto e continuo tra istituzioni, società civile e cittadini. La riduzione degli spazi di confronto, la marginalizzazione del Parlamento e la centralizzazione del potere esecutivo sono tutti sintomi di una malattia che può rapidamente degenerare.
Se vogliamo essere lungimiranti, dobbiamo tuttavia ponderare saggiamente i rischi di una tale concentrazione del potere devono essere considerati nella loro interezza. Se da un lato potrebbe sembrare una soluzione rapida e definitiva a molti dei problemi della nostra democrazia, dall’altro rischia di compromettere irrimediabilmente la pluralità e la capacità di rappresentanza del nostro sistema politico. Dobbiamo prendere atto che la sfida non riguarda solo una riforma istituzionale, ma il destino stesso del nostro sistema democratico fondato con la Repubblica dopo il ventennio fascista.
La democrazia parlamentare è certamente imperfetta, ma è l’unico baluardo contro la deriva autoritaria. Se l’Italia vuole davvero restare una democrazia matura, capace di rappresentare le diverse anime del Paese e di garantire un equilibrio tra i poteri, deve resistere alla tentazione di imboccare la scorciatoia del presidenzialismo, che, pur promettendo efficienza e stabilità, rischia di condurci su un piano inclinato pericoloso e difficile da risalire.