Il concetto di “figlio unico” è stato a lungo associato a stereotipi negativi: si pensa che queste persone siano viziate, egoiste e socialmente inadeguate. Tuttavia, queste concezioni potrebbero non solo essere infondate, ma anche distorte da una storia di pregiudizi sociali e culturali. Questo tema è stato ripreso da un recente articolo pubblicato su Internazionale, che si ricollega alle origini di questi luoghi comuni, risalenti a oltre un secolo fa.
La genesi di tali pregiudizi è spesso attribuita allo psicologo infantile Granville Stanley Hall, primo presidente dell’American Psychological Association nel 1892. Hall riteneva che essere figli unici fosse una “malattia”, e i suoi studi influenzarono notevolmente la percezione della personalità di chi non aveva fratelli. Successivamente, il suo protetto, E.W. Bohannon, condusse uno dei primi studi sul tema, selezionando oltre mille bambini e classificandoli in base a tratti considerati “particolari”, tra cui “lamentosi” o “egoisti”. Tra questi, 46 bambini vennero etichettati come “figli unici” e associati all’egoismo.
Questa concezione, però, potrebbe derivare dal fatto che nel passato avere un figlio unico era piuttosto raro. Prima della disponibilità di contraccettivi affidabili negli anni Sessanta, le famiglie tendevano ad avere più figli. I tassi di natalità erano elevati sia per ragioni biologiche che sociali: le famiglie necessitavano di molti figli per garantire la sopravvivenza della prole. Essere figlio unico poteva dunque implicare una situazione familiare difficile, come la cattiva salute dei genitori o la malnutrizione. Così, avere un solo figlio divenne un’indicazione di problematiche domestiche, alimentando l’idea che i figli unici fossero “diversi”.
La stessa psicologia dello sviluppo ha cominciato a guardare i figli unici con occhi diversi, riconoscendo che la loro condizione non li rende intrinsecamente carenti o incapaci di stabilire relazioni sociali significative. Anzi, spesso i figli unici sviluppano competenze relazionali e sociali avanzate, poiché fin da piccoli interagiscono prevalentemente con adulti, dai quali apprendono modelli di comportamento maturi. La crescita dei figli unici offre anche nuove prospettive sul concetto di rete sociale: questi bambini e adolescenti hanno più occasioni per sviluppare amicizie profonde, assumendo ruoli attivi in una rete sociale di loro creazione, piuttosto che all’interno di una rete familiare più estesa e predeterminata.
In tempi più recenti, però, i figli unici sono diventati sempre più numerosi. Nei Paesi ad alto reddito, tra cui Stati Uniti e Regno Unito, la scelta di avere un solo figlio è cresciuta dagli anni Settanta, sia per motivi economici sia per preferenze personali. Secondo Éva Beaujouan, demografa dell’Università di Vienna, oggi quasi metà delle famiglie europee ha un solo figlio. Nonostante la diffusione di questo modello familiare, persiste l’idea che crescere senza fratelli sia un’esperienza svantaggiosa.
Alcuni studi moderni, tuttavia, contestano queste ipotesi. Toni Falbo, dell’Università del Texas ad Austin, sostiene che molti dei tratti associati ai figli unici – come l’essere introversi o meno predisposti alla socialità – sono in realtà frutto di pregiudizi culturali e di aspettative sociali. Lungi dall’essere viziati o asociali, i figli unici mostrano spesso livelli di empatia, maturità e competenza sociale paragonabili, se non superiori, a quelli dei bambini con fratelli. In effetti, come sottolinea Michael Dufner dell’Università di Witten/Herdecke in Germania, la tendenza a percepire il figlio unico come “diverso” nasce dal fatto che, in passato, rappresentava un’anomalia. Oggi, però, questa caratteristica è sempre più comune e l’immagine di solitudine e narcisismo che la accompagna sta perdendo di validità.
La crescente diffusione dei figli unici ha sicuramente contribuito a ridimensionare i vecchi stereotipi negativi che li riguardano. In passato, l’idea del figlio unico come vizioso, egoista e socialmente inetto si basava sulla rarità della sua condizione, considerata quasi una deviazione dalla norma in società dove le famiglie erano tradizionalmente molto numerose. Tuttavia, negli ultimi decenni, specialmente nei Paesi ad alto reddito, le dinamiche familiari sono cambiate radicalmente.
La riduzione delle nascite, spesso associata a fattori economici, culturali e di scelta personale, ha portato ad una normalizzazione della famiglia con un solo figlio. Questo nuovo contesto sociale contribuisce a ridurre il peso dei pregiudizi: quando la condizione di figlio unico diventa una realtà diffusa, diminuisce l’urgenza di etichettarla come “anomala” o “problematicamente diversa”. Inoltre, i genitori moderni tendono a rifiutare le vecchie etichette e a considerare il benessere e la realizzazione dei loro figli al di fuori di schemi predefiniti.
In sintesi, il passaggio a famiglie più piccole ha contribuito a spostare l’attenzione dal numero di fratelli al benessere complessivo del bambino, promuovendo una visione meno stereotipata e più realistica della personalità del figlio unico. Mentre le vecchie idee di egoismo e asocialità si indeboliscono, emerge una figura di figlio unico che può essere altrettanto empatica, generosa e ben integrata socialmente quanto i coetanei con fratelli.