Andrea Camilleri non è né rozzo, né superficiale, è figlio del suo tempo. Questi aggettivi gli sono stati affibbiati, a mio avviso con leggerezza, da uno scrittore siciliano, che mi è amico. Ho manifestato perciò il mio dissenso in una chat, ricordando che Camilleri a inventato una lingua, ha fatto amare la Sicilia, stuprata dai siciliani e non. Ha svelato il rapporto tra potere, giustizia e corruzione: un grande scrittore civile, del quale si leggerà a lungo in futuro. Luigi Pirandello, suggerito dal mio amico come un marziano rispetto a Camilleri, alfine di sottolinearne la pochezza, lo giudico un genio nel tempo dei geni, come Dostoevskij e Musil. Condivide con loro il ritratto spietato della condizione umana: l’analisi profonda dell’interiorità umana, la disgregazione dei valori tradizionali, il conflitto tra razionalità e caos e tra individualità e società, le ambiguità morali e psicologiche, esplorando verità esistenziali oltre le convenzioni, l’ipocrisia e i dogmi sociali con i personaggi in bilico tra molteplici identità. Andrea Camilleri rappresenta la cultura siciliana attraverso la lingua e i costumi, le storie radicate nel territorio. Come Pirandello, è figlio del suo tempo: il nostro, rozzo e superficiale.
Andrea Camilleri, lungi dall’essere rozzo o superficiale, incarna una delle voci più autentiche e consapevoli della letteratura italiana contemporanea. La sua opera rappresenta una sintesi straordinaria tra tradizione e innovazione, tra l’affresco della realtà siciliana e una visione universale dei conflitti umani. L’idea stessa di rozzezza appare infondata di fronte alla complessità della lingua camilleriana: una koinè unica, forgiata con maestria dall’autore, che mescola italiano, siciliano e termini arcaici, non per semplice esotismo, ma per scolpire un linguaggio narrativo che dialoga direttamente con le radici culturali e identitarie della sua terra.
Questa lingua “inventata” da Camilleri è, in realtà, un atto di ribellione e di conservazione insieme: ribellione contro l’omologazione culturale e linguistica del nostro tempo, conservazione di un’eredità culturale altrimenti destinata all’oblio. Con il commissario Montalbano, Camilleri non solo ha dato voce a una Sicilia sospesa tra modernità e arcaicità, ma ha costruito un personaggio che, nella sua umanità fragile e irriverente, rappresenta un’intera nazione in bilico tra corruzione e speranza, potere e giustizia.
Pirandello, come sottolineato, esplora i labirinti dell’anima e della psiche, ma Camilleri non è da meno nel tracciare i confini del vivere civile e della responsabilità collettiva. In romanzi come Il birraio di Preston o La concessione del telefono, l’autore smaschera con ironia mordace i meccanismi del potere, le ambiguità della giustizia e il grottesco che si annida nella banalità del male.
Se Pirandello tratteggia le contraddizioni dell’identità umana attraverso l’introspezione, Camilleri lo fa attraverso il racconto corale di una società che specchia sé stessa nella sua narrativa. La presunta superficialità attribuita al nostro tempo, che Camilleri rispecchia con le sue storie, non deve ingannare. È proprio in questo tempo “rozzo e superficiale” che si annida il bisogno di una letteratura capace di rivelare, con uno sguardo lucido e disincantato, le fragilità e le grandezze dell’umano. Camilleri, come ogni grande scrittore civile, ha saputo raccontare il suo mondo con verità, trasformandolo in specchio per ogni epoca. Egli non si limita a rappresentare la Sicilia: la reinventa, la dona al lettore come metafora universale.
Scriveva lo stesso Camilleri: «Scrivere è un modo per parlare al buio». Un buio che egli ha rischiarato con la sua narrativa, rendendo la sua opera un faro per il futuro, proprio come Pirandello e altri giganti del passato hanno illuminato il loro tempo. Il confronto non deve annullare le differenze, ma esaltare il comune intento: fare della letteratura un’indagine sull’uomo, sul potere e sulla verità.








