Nei primi tre mesi del suo secondo mandato presidenziale, Donald J. Trump ha mostrato una notevole instabilità decisionale: almeno 257 cambi di posizione documentati su temi centrali come economia, NATO, guerra in Ucraina, immigrazione, sanità e regolamentazione delle Big Tech. Questo dato, lungi dall’essere un semplice indice di flessibilità politica, solleva interrogativi fondamentali circa la natura e le motivazioni profonde della sua leadership. Le sue oscillazioni più marcate si sono registrate in tre ambiti: la politica estera, in particolare nei confronti della NATO e dell’Ucraina; la regolamentazione delle grandi piattaforme tecnologiche; la politica migratoria e commerciale. .
Proviamo ad analizzare le possibili matrici interpretative di tale comportamento politico, distinguendo tra tre ipotesi prevalenti: la pianificazione strategica, l’improvvisazione e l’incompetenza amministrativa, e infine l’adesione a una postura ideologica sovranista e reattiva, foriera di contraddizioni sistemiche.
- L’ipotesi strategica: oscillazioni come tattica deliberata
Un primo approccio considera le continue inversioni di rotta come parte di una strategia comunicativa e politica attentamente pianificata. In questa prospettiva, Trump adotterebbe un comportamento apparentemente incoerente per destabilizzare gli attori politici e mediatici, mantenere un controllo narrativo assoluto sul ciclo dell’informazione e confondere gli avversari. Questa logica si avvicina al concetto di “strategic ambiguity”, per cui l’incertezza stessa diviene uno strumento di potere. Ciò è particolarmente evidente nelle sue relazioni con la NATO: dichiarazioni aggressive contro l’alleanza atlantica sono spesso state seguite da rassicurazioni o concessioni, disorientando tanto gli alleati quanto l’opinione pubblica domestica.
Tuttavia, tale ipotesi presuppone un grado di coerenza e coordinamento interno che raramente trova riscontro nella pratica amministrativa della Casa Bianca sotto Trump, soprattutto in questo secondo mandato, segnato da un turnover elevato tra i consiglieri e da conflitti interni all’esecutivo.
- L’ipotesi dell’improvvisazione e dell’incompetenza
Una seconda chiave di lettura fa riferimento all’assenza di una visione strategica coerente e alla cronica instabilità dell’apparato decisionale. Le contraddizioni evidenti tra dichiarazioni pubbliche e provvedimenti esecutivi, la frequente smentita delle affermazioni del presidente da parte dei suoi stessi funzionari, e l’affidamento quasi esclusivo ai social media come canale di comunicazione istituzionale suggeriscono un modus operandi caotico, dominato da impulsi contingenti più che da una regia pianificata. In tal senso, le oscillazioni non sarebbero volute, ma il prodotto di una governance carente, caratterizzata da una debolezza strutturale nella gestione delle policy e da un’inefficace integrazione tra leadership politica e macchina burocratica.
- L’ipotesi ideologica: sovranismo reattivo e contraddizioni strutturali
Un terzo modello interpretativo, forse il più fecondo, è quello che attribuisce le oscillazioni a una postura ideologica fondata su un sovranismo esclusivo e reattivo. In questa visione, Trump incarna un nazionalismo identitario che si definisce più per opposizione che per proposta, più per impulso che per progetto. Tale ideologia, priva di una teoria sistemica dell’economia globale o delle relazioni internazionali, produce inevitabilmente contraddizioni ogniqualvolta entra in contatto con la complessità del sistema internazionale o con le esigenze interne di governance. La guerra in Ucraina ne è esempio emblematico: oscillando tra ammiccamenti alla Russia e richieste di fermezza verso Mosca, Trump ha rivelato l’incapacità di conciliare l’unilateralismo nazionalista con le dinamiche multilaterali della sicurezza europea.
La volontà prevalente come tensione irrisolta
Alla luce delle analisi proposte, appare difficile identificare una volontà prevalente univoca nella condotta politica di Trump. Le sue oscillazioni sembrano derivare da una combinazione di elementi: una predisposizione alla manipolazione del discorso politico, una governance debole e reattiva, e un’ideologia che fatica a strutturarsi in visione di lungo periodo.
Più che una strategia pianificata, l’approccio di Trump sembra rispondere a una logica adattiva, tattica, spesso incoerente, dove le contraddizioni non sono tanto un difetto quanto un riflesso strutturale del progetto politico stesso. In questo senso, la sua leadership rappresenta una sfida epistemologica per la politologia contemporanea, obbligata a confrontarsi con forme di potere che sfuggono alle categorie tradizionali di coerenza, razionalità e continuità.








