Il voto al referendum è minacciato dall’astensionismo, ma anche dai tradimenti e da un uso improprio che ne hanno gravemente danneggiato l’immagine. La volontà degli elettori espressa nei referendum è stata finora disattesa, ignorata se non addirittura violata con alcune eccezioni. Esemplare il “no” al finanziamento dei partiti, che ha ottenuto la maggioranza ed il quorum: abrogata la legge sul finanziamento, nel giro di pochi giorni il parlamento l’ha rimpiazzata con un’altra legge che ha incrementato le risorse ed ha spostato il terminale dei finanziamenti dalle segreterie politiche ai gruppi parlamentari, con il risultato che i destinatari delle risorse pubbliche, i capigruppo parlamentari, hanno ottenuto il cordone della borsa e si sono impadroniti dei partiti. Il partito, odiatissimo, è stato di fatto cancellato, e con esso una fetta di democrazia. Dall’oligarchia si è passati alla monarchia, assoluta o temperata. E i partiti, finti o quasi, sono cominciati a nascere anche dopo una cena fra amici, ed i congressi a celebrare come fossero feste d’incoronazione, a conclusione delle quali il segretario riceve il mandato di disporre del suo partito come vuole. Non è scomparsa invece la corruzione, è stato decapitato uno dei pilastri della democrazia, il partito, luogo di dibattito e formazione, di mediazione fra il cittadino e le istituzioni.
Ma il referendum, come strumento della democrazia, è incolpevole, al pari del partito. Il referendum è stato raggirato, ingannato, screditato da coloro che hanno ricevuto dagli elettori il mandato di farlo rispettare; gli elettori che avevano espresso un voto negativo sul mantenimento del finanziamento sono stati traditi due volte dai parlamentari scelti alle urne, se oggi la partecipazione degli elettori ai referendum è ridotta ai minimi termini, chi ne fa le spese è il cittadino, derubato dell’unico strumento diretto di democrazia.
Cospargersi il capo di cenere non serve: il referendum possiede qualcosa di prezioso, permette all’elettore di votare per qualcosa e non per qualcuno, e non è una qualità di poco conto, perché ci obbliga a fare i conti con noi stessi. Il referendum sposta il baricentro, dal “chi è” delle competizioni elettorali, alla politica con la “p” masciusola, al “che cosa fare”. L’elettore non ha intermediazioni, diventa sovrano del suo destino (il sovranismo da rispettare). È l’eccesso di «sfera personale», scrive Aldo Grasso (Corriere della Sera, 5.5.25) ciò che mina nelle sue fondamenta lo stato di diritto, la cui natura «impersonale» è nata per contrastare l’esercizio arbitrario del potere esecutivo. Basterebbe questa buona ragione per onorare il referendum, recandoci alle urne, al di là dei quesiti che ci pone e delle personali legittime opinioni che su essi abbiamo.
 
			 
			







