C’è un invito a tacere sul male e sulla sua predicazione. Un silenzio che non è prudenza, ma omertà: mettere tra parentesi la violenza, la disumanità, l’ingiustizia; legarci all’impotenza fino a farci sentire complici del crimine più intollerabile, l’assassinio di un uomo. È un capovolgimento: si spostano ai margini il fiele, il veleno, l’odio che arma la mano dell’assassino, mentre chi li denuncia viene trattato come se stesse oltrepassando un confine.
Il meccanismo è noto: si usa la violenza per glorificare la violenza. L’infamia del delitto si nutre del sangue per eliminare il male non già contrastandolo, ma assolvendo — con l’oblio — la predicazione che lo prepara. L’orrore produce esecrazione, e l’esecrazione diventa alibi per non discutere più di ciò che ha alimentato quell’orrore.
Questo sta accadendo anche in Italia, nel dibattito seguito all’uccisione di Kirk. Mentre si assiste ad una chiamata di correità della Premier, il rischio è che si cancelli il contesto: Kirk, nei suoi sermoni, ha inneggiato alla segregazione razziale, alla deportazione degli stranieri, alla supremazia del maschio bianco, alla condanna della diversità, alla sottomissione delle donne, alla conquista del potere “per l’America” contro gli altri, alla devozione verso una “nazione di Dio” personificata in Donald Trump. Queste parole non sono semplici opinioni: sono un programma di esclusione, che non si neutralizza beatificando la vittima né demonizzando chi lo critica.
Due cose devono allora restare chiare. La prima: un omicidio si condanna senza attenuanti, sempre. La seconda: la libertà di parola non è l’impunità della parola. La responsabilità politica e morale di ciò che si predica non svanisce quando la cronaca precipita nel sangue.
Il silenzio è un prezioso alleato dei violenti. Serve piuttosto la denuncia, la misura dello Stato di diritto, serve la misura della democrazia: chiamare le cose col loro nome, senza confondere la dissidenza con l’odio, la fermezza con la brutalità. La politica, tutta, ha il dovere di condannare l’assassinio e di prendere le distanze — senza ambiguità — dalla retorica che gerarchizza vite e diritti. La Premier ha il dovere sacrosanto di farci sapere qual è il suo pensiero sulla predicazione di Kirk, senza nascondersi dietro la vittima. La sua omertà, altrimenti, diviene sospetta. Molto sospetta.
Non ci lasceremo trasformare in ciò che combattiamo: violenti, ingiusti, prepotenti. La nostra storia civile e il nostro patrimonio di umanità bastano a indicarci la strada: memoria invece di oblio, responsabilità invece di slogan, dignità invece di supremazia. Perché una democrazia non è neutrale tra chi allarga i confini della libertà e chi li restringe: sceglie, e chiama il male col suo nome.