Nella Roma barocca bastava una parola, “eretico”, per spedire qualcuno davanti al Sant’Uffizio. Oggi basta l’aggettivo “sedicente”, e a brandirlo non è un inquisitore in tonaca nera ma la Premier Giorgia Meloni in tailleur istituzionale (quattro cambi quitidiaani). È il nuovo timbro infamante, distribuito a piene mani contro gli avversari: “sedicenti antifascisti”, “sedicenti pacifisti”, “sedicenti pro-Pal”.
Che cos’è il “sedicente”? Letteralmente: chi si spaccia per quello che non è. Una patente di falsità morale, un lasciapassare per la gogna. È curioso, però: il termine nacque nella Francia del Seicento come arma della libellistica antigesuitica — si parlava infatti della “sedicente Compagnia di Gesù”. Oggi il lessico dell’ancien régime è stato arruolato nel prontuario politico della Presidente del Consiglio, con l’aggiunta del bollino “odioso”, altra categoria teologico-politica che pare tratta direttamente dal catechismo dei peccati capitali.
Il “protocollo anti-opposizioni” funziona così:
- Etichettare – Non ci sono più avversari, solo sedicenti. Il prefisso scredita prima ancora che l’altro apra bocca.
- Moralizzare – Non basta che l’opposizione sbagli, deve essere colpevole. Colpevole di falsità identitaria: non siete veri antifascisti, non siete veri democratici, non siete veri italiani.
- Infantilizzare – Il nemico diventa un bambino che si traveste: “fa finta di”. È la politica ridotta a carnevale di usurpatori.
- Esautorare – Se sei “sedicente”, non puoi avere diritto di parola. La tua patente politica è scaduta.
Il paradosso è che per capire davvero cosa significhi antifascismo, occorre prima intendersi su cosa sia il fascismo. Non basta il busto del Duce o l’olio di ricino nella memoria. Flaiano, con la sua sintesi spietata, lo descriveva come demagogico e padronale, xenofobo e plagiante, stupido ma instancabile, pronto a scaricare sugli “altri” le proprie sconfitte. Non amava l’amore, ma il possesso; non aveva fede, ma un concordato privato con Dio. E allora? Allora l’accusa di “sedicente antifascista” ha un retrogusto amaro: significa forse che l’antifascismo autentico, quello che difende libertà, giustizia e cultura, è diventato un lusso fuori corso, mentre il vero potere si tiene stretta la facoltà di stabilire chi lo sia davvero?
La colonna infame di Verri e Manzoni serviva a ricordare per sempre un’ingiustizia giudiziaria. La versione Meloni, più aggiornata, punta a marchiare un’opposizione già minoritaria, trasformandola in parodia di sé stessa. La differenza è che allora il marchio era scolpito sulla pietra. Oggi basta un microfono acceso in Aula o una diretta social. Chi lo sa, forse un giorno ci ritroveremo un “Museo dei Sedicenti” accanto a quello delle cere: dentro, tutte le opposizioni imbalsamate, con la targhetta d’ordinanza. “Sedicente democratico”. “Sedicente progressista”. “Sedicente leader in ascesa”.
Fino a quel giorno, possiamo consolarci con Flaiano: se il fascismo è sempre manierista, il “sedicente” è almeno un tocco di avanguardia linguistica. Peccato che, come ogni moda, rischi di scadere presto. Ma intanto, in mancanza di un dibattito, la politica si affida a un catechismo di etichette. Un rosario laico, recitato ogni giorno dal banco del governo.