La frattura, a quanto pare insanabile, fra Donald Trump ed Elon Musk, ha gettato fuori dal campo visivo Elon Musk i. Italia, dopo un breve ma intenso feeling politico-comunicazionale fra l’uomo dei satelliti e la Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni. Musk è sparito. L’allineamento della Premier alla Casa Bianca impone anche una rigorosa scelta delle relazioni e delle amicizie. La strategia della tensione, messa in atto dal governo italiano dopo l’uccisione di Charlie Kirk (l’odiosa sinistra mondiale ed italiana) è stata la conferma, del resto, del livello di “dipendenza” dell’Italia. C’è un nodo che stringe l’Italia sempre più stretta, in apparenza invisibile ma tremendamente concreto: un legame che non è solo atlantico, né soltanto diplomatico. È un vincolo totalizzante: ideologico, relazionale, strategico e politico verso un modello di potere che, negli Stati Uniti, sotto Donald Trump, sta rapidamente smettendo di essere una democrazia liberale e sta diventando qualcos’altro. E noi — Italia — non opponiamo resistenza. Al contrario, sembriamo marciare silenziosamente lungo una strada che ci conduce non solo alla Casa Bianca, ma dentro l’orbita ideologica e operativa del trumpismo globale.
Gli Stati Uniti stanno cambiando pelle. Non è una svolta improvvisa: la deriva è in corso da tempo. Il sistema istituzionale americano è sotto stress, le regole del confronto politico sono erose da anni di delegittimazione reciproca, e il ritorno di Trump, oggi tutt’altro che improbabile, segnerebbe la vittoria di una concezione illiberale del potere: tribunali addomesticati, libertà civili sotto attacco, gestione autoritaria della sicurezza interna e dell’informazione. È una “dittatura a intermittenza”, che si mimetizza sotto la scorza delle istituzioni, ma opera come un regime personalistico e punitivo (perfino i comici sgraditi vengono licenziati).
Non è la Russia, non è la Corea del Nord, non ha i gulag né la propaganda di Stato h24. Ma è un sistema in cui la democrazia è una facciata e il potere un’arma per dividere, colpire e rafforzare sé stesso. E questo modello — che da Washington si proietta sul mondo — trova alleati, simpatizzanti, discepoli. Giorgia Meloni, oggi, è una di questi.
Ma non si tratta solo una questione di affinità politica. È una questione di stile di governo. Autoritarismo soft, verticalismo del potere, riduzione del pluralismo nei media, uso strategico della paura e dei nemici interni ed esterni, delegittimazione dell’opposizione, culto della leader. La premier italiana non ha bisogno di stravolgere la Costituzione per somigliare a Trump: le basta assecondarne l’agenda. Lo fa sul piano simbolico e concreto, con gesti, parole. Lo fa sul piano pratico, con il silenzio assordante nel sostegno di Trump alle guerre di Netanyahu e Putin, ai dazi american, un’umiliazione economica che il governo subisce senza reagire, come se la sovranità fosse un cappello da sfilarsi quando si entra alla Casa Bianca.
L’Italia si è infilata in una diplomazia grottesca che pretende di “negoziare la pace” con chi la pace la sabota ogni giorno. La finta equidistanza sul conflitto in Ucraina, il doppio linguaggio su Gaza, l’ossessione per la “stabilità” a scapito della giustizia e del diritto: tutto questo fa parte di un copione che ha più a che fare con l’appeasement dei potenti che con la costruzione di un ordine internazionale fondato su regole condivise.
Il rischio non è imminente, ma strutturale. Non ci sarà un golpe, non ci saranno stivali per le strade. Ma un lento disfacimento della democrazia sotto il peso del trasformismo, della subordinazione economica, dell’ideologia della forza. Stiamo percorrendo una strada che ci conduce alla Casa Bianca — ma non quella di Roosevelt o di Obama. È la Casa Bianca di Trump, quella che assomiglia sempre di più a una reggia. E noi, forse, stiamo diventando la corte.