L’Italia si muove in un rapporto di gemellaggio politico e retorico con l’amministrazione Trump, saldo al punto che la Premier Meloni ne segue i passi quasi in tempo reale: dalla postura internazionale (rapporti con Israele), al linguaggio sulla sicurezza, fino all’idea di un’Europa da “contenere” più che da rafforzare. È un vincolo che produce vantaggi immediati in termini di visibilità e riconoscimento internazionale, ma che porta con sé pericoli concreti. Che cosa significa quando la prima potenza militare del pianeta decide di ribattezzare il suo dicastero della difesa come “Ministero della Guerra”?
Non è un dettaglio nominalistico, ma un cambio di lessico che produce conseguenze reali: la difesa implica protezione, la guerra presuppone offesa. Se a ciò si aggiunge la riunione straordinaria dei vertici militari convocata dal Presidente Trump e il dispiegamento di truppe nelle grandi città americane, da Los Angeles a Chicago, si delinea un quadro che non può essere letto soltanto in chiave di ordine pubblico. La cornice è quella di una normalizzazione dell’emergenza: la militarizzazione della vita civile, il linguaggio della minaccia permanente, l’erosione silenziosa dei contrappesi democratici.
Il gemellaggio con un’America in versione emergenziale rischia di incrinare questo equilibrio fragile. Non si tratta solo di geopolitica, ma di cultura politica: la differenza tra un Paese che difende la sua democrazia e uno che si abitua a vivere in una condizione di “guerra latente”. Di fronte a questo scenario, la vera domanda non è quanto l’Italia riuscirà a beneficiare di un rapporto privilegiato con Washington, ma quanto sarà disposta a sacrificare della propria autonomia europea e della propria tenuta democratica per mantenerlo.
Teniamo presenti alcuni elementi: la Casa Bianca consolida l’uso ricorrente di strumenti d’eccezione; i tribunali frenano a scatti, ma l’asticella si sposta. Effetti: più conflitto istituzionale federale-Stati; imitazione selettiva in Paesi “gemellati” sul piano politico-narrativo. La priorità alla sicurezza interna alimenta leggi e prassi che comprimono spazi di protesta e libertà civili.
La Casa Bianca ha avviato dispiegamenti della Guardia Nazionale in grandi aree urbane (Los Angeles, Washington D.C., Memphis, Chicago, New York, Baltimore), con l’idea — contestata in sede giudiziaria — di usare le città come “training grounds”. In Europa cresce il contagio lessicale (ordine, nemico interno, guerra ibrida) con pratiche di policing più aggressive. Una postura USA più coercitiva in economia e sicurezza spinge alcuni partner UE (Italia inclusa) a scelte difficili fra lealtà politica e interessi strutturali (export, energia, supply chain). Roma, se eccessivamente allineata, rischia minor capacità di mediazione in UE
La storia insegna che i passaggi autoritari raramente avvengono con colpi fragorosi: molto più spesso si consumano in una serie di piccoli slittamenti, giustificati dall’“urgenza” del momento. Una cornice straordinaria che diventa ordinaria, fino a cambiare la percezione di ciò che è legittimo in politica e in società. È questo il rischio che molti osservatori intravedono oggi negli Stati Uniti, dove la logica del “nemico interno” e l’estensione dei poteri presidenziali sulla sicurezza stanno trasformando il tessuto stesso della democrazia.
Il combinato disposto di simboli istituzionali bellici (“War Department”), militarizzazione dello spazio civile, guerra al “nemico interno” (giudici, funzionari federali non allineati), segnala un riassetto di potere in chiave emergenziale negli Stati Uniti. È coerente con uno smantellamento graduale delle regole democratiche per via procedurale. Per l’Italia, l’allineamento politico-narrativo del governo Meloni a Washington aumenta i dividendi nell’immediato ma espone a rischi sistemici: meno autonomia in Europa, più conflitto sociale domestico, e una strategia estera vincolata dall’agenda altrui. La posta in gioco non è la “guerra” domani, ma il tipo di democrazia che saremo disposti ad accettare oggi. Nel contesto Gaza/Ucraina Roma ha adottato una postura che privilegia la relazione con Washington e con Israele pur con distinguo tattici (Tajani), mentre la Premier mantiene una retorica dura verso iniziative pro-Palestina interne. Il rischio è una polarizzazione domestica importata e una crescente frizione con segmenti della società civile.
Think tank e centri studi vicini al mondo “America First” leggono in Meloni una versione italiana del bilateralismo sovranista (“Italy First”), con promesse di crescita della spesa difesa e una relazione privilegiata con Washington. Questo gemellaggio politico amplifica il trasferimento di linguaggi e priorità.
Analisi indipendenti segnalano che un eccesso di subordinazione alla linea USA riduce l’“intermediazione” italiana dentro UE e NATO, restringendo i margini di autonomia su Mediterraneo, energia, commercio e dossier Medio Oriente.
(L’articolo è stato elaborato con il supporto dell’AI)
 
			 
			







