Il caso Gela è una “stazione” della Via Crucis del Mezzogiorno d’Italia, nella quale sono nati e cresciuti volontà e buon e ragioni per voltare la pagina all’Italia bifronte, quella ricca e l’altra, perennemente povera, il passaggio dal meridionalismo cartaceo all’azione con l’Intervento Straordinario, ma sono nati e cresciute le lobbies politiche, economiche, finanziarie ed industriali per trarne vantaggi e plus valore “da rapina”. Il bilancio è negativo: alla resa dei conti, il costo dei posti di lavoro consegnati a Gela e la Sicilia è stato pagato duramente dalle popolazioni e l’ambiente locale, in termini di devastazione della natura e del paesaggio ed in termini di salute dei cittadini. A distanza, ormai lunga distanza, della chiusura di fatto del petrolchimico e la sua conversione in bioraffineria, le conseguenze dell’inquinamento del sottosuolo ed atmosferico. L’inquinamento ha ucciso e continua ad uccidere e i governi – centrale e regionale – ignorano sia le cause quanto gli effetti della devastazione ambientale. La Regione siciliana, che utilizza l’assistenza sanitaria, per fare cassa nei consessi attraverso una lottizzazione selvaggia dei presidi sanitari, non riconosce ancora oggi alle popolazioni locali il diritto alla salute, istituendo, ampliando, efficientando ion termini di risorse e di qualità, le strutture che servono.
Gela, finalmente, pare essersi svegliata da un lungo torpore e da una oggettiva “era” della marginalità nei servizi, non solo sanitari, e sta scoprendo che le burocrazie provinciali, braccio secolare delle camarille partitiche non si elimina attraverso pretese campanilistiche, strumentalizzate da settanta anni per lucrare consensi alle urne, ma attraverso battaglie politiche su temi, questioni, richieste che servono alla gente, quella gente che ha dato un contributo essenziale in anni cruciali alla crescita energetica ed economica del Paese.
Da quando la città di Gela ha visto sorgere sul proprio territorio il polo petrolchimico dell’Eni, la richiesta è sempre stata una: un sistema sanitario adeguato ai rischi ambientali e industriali. Oggi, nel 2025, mentre il polo è stato convertito in bioraffineria ma i terreni e le falde restano contaminati, il diritto alla salute appare sempre più negato.
Il nuovo piano della Rete ospedaliera regionale, discusso all’Ars, penalizza la città di 75mila abitanti (150mila col comprensorio) con tagli significativi in un territorio che registra tassi record di malformazioni (un caso ogni 166 abitanti) e un’incidenza oncologica tra le più alte d’Italia: nel 2025 il reparto di Chemioterapia ha contato in soli sei mesi gli stessi ingressi dell’intero 2024. Eppure, nell’ospedale “Vittorio Emanuele” i posti letto in Oncologia sono soltanto due, gestiti da un primario e due medici che assistono decine di pazienti al giorno.
La Regione parla di potenziamento – i posti letto dovrebbero passare da 147 a 234 – ma i numeri sono quelli già annunciati nel 2019 e mai realizzati. Anzi, nel nuovo piano vengono “tagliati” posti che esistono solo sulla carta: 12 in meno rispetto ai 22 inizialmente previsti, ma sempre a discapito della città. Così, mentre a Gela si invoca da anni l’attivazione di un’Unità di terapia intensiva neonatale (Utin), il servizio è previsto altrove, a Caltanissetta ed Enna, lasciando ancora una volta la capitale del petrolchimico sguarnita.
I cittadini sono tornati in piazza. Il sindaco Terenziano Di Stefano, che denuncia un “corto circuito” politico: i Sin, i siti di interesse nazionale, dovrebbero essere prioritari nella tutela sanitaria, ma vengono abbandonati in favore di territori più “convenienti” per la politica.
La realtà è un cane che si morde la coda: senza medici non si aprono nuovi posti, senza posti non arrivano medici. Intanto, i numeri restano impietosi: nel 2002 l’ospedale di Gela contava più di 300 posti letto, oggi meno della metà. E mentre le malattie aumentano, cresce anche la sfiducia di una comunità che ha già pagato un prezzo altissimo per lo sviluppo del Paese.