Se TikTok è oggi il tavolo dei negoziati fra le due più grandi potenze del pianeta, si comprende perché l’Europa sia nel mirino di Donald Trump e delle Big Tech americane. Non è una questione di danza o intrattenimento, ma di egemonia digitale, e quindi politica. La piattaforma cinese, divenuta il principale spazio di propaganda informale, è la nuova ambasciata del potere, dove non si depositano note diplomatiche ma flussi di dati, emozioni e consenso.
Nella guerra fredda dell’algoritmo, Washington e Pechino combattono non più per territori o basi missilistiche, ma per il controllo del tempo e dell’attenzione: la risorsa più scarsa del XXI secolo. Ogni scroll, ogni like, ogni frammento audiovisivo è un atto politico. E l’Unione Europea, che tenta di regolare il caos con il Digital Services Act e il Digital Markets Act, diventa un ostacolo strutturale. Una potenza normativa senza una piattaforma propria: un corpo legislativo privo di nervi sensoriali.
Trump lo ha intuito meglio di molti europei. Per lui — e per le corporation che lo sostengono — l’Europa rappresenta un problema duplice: economico e simbolico. Economico, perché impone regole che limitano la rendita di posizione delle Big Tech americane; simbolico, perché tenta di affermare una sovranità digitale distinta da quella statunitense, introducendo un’idea eretica nel nuovo ordine mondiale: che il cyberspazio possa essere soggetto a diritto, non solo a profitto.
Dietro le invettive contro Bruxelles, i dazi “patriottici” e le minacce di ritirarsi dalla NATO si cela dunque un disegno coerente: disarticolare l’Europa dal punto di vista politico e culturale, esporla a una doppia dipendenza — tecnologica dagli Stati Uniti, informativa dalle piattaforme. Se l’Europa non possiede le sue fabbriche digitali, sarà fabbricata digitalmente da altri.
È qui che entrano in scena le troll factory: strutture para-industriali, spesso invisibili, che determinano le campagne elettorali più efficaci del nostro tempo. Non servono spie, né bombe. Basta inondare il campo con messaggi coordinati, ironia tossica, manipolazione memetica. La verità diventa un campo di battaglia e il voto, una performance.
Il vecchio continente — con la sua burocrazia, i suoi regolamenti, le sue lentezze — è vulnerabile perché non parla il linguaggio del contagio. Mentre l’America di Trump e la Cina di Xi si affrontano a colpi di algoritmi, l’Europa discute ancora di quote di bilancio, senza capire che il potere, oggi, non si misura in PIL, ma in engagement. In questo scenario, TikTok non è un social network. È una conferenza di pace e di guerra. È la nuova Yalta, ma senza Roosevelt, Stalin o Churchill. Solo avatar. E se l’Europa non troverà il modo di sedersi a quel tavolo con un profilo proprio, finirà — ancora una volta — per essere il menù.
 
			 
			






