“Lasciatemi tornare alla casa del Padre”, implorò Giovanni Paolo II, ai medici che lo assistevano nelle ultime ore della sua vita terrena, La morte di Papa Francesco, annunciata dal cardinale Kevin Farrell, Prefetto del Dicastero per i Laici, la Famiglia e la Vita, con parole intrise di dolore e reverenza, apre a una riflessione profonda sulla sua spiritualità e sull’immagine di Dio che emerge dal suo testamento umano e pastorale. “Tornare alla casa del Padre” è la formula con cui la liturgia vaticana traduce la speranza cristiana nell’incontro finale con Dio. Francesco declina questa visione in una dimensione particolare: quella del ritorno alla Madre.
Il desiderio espresso nel suo testamento, essere sepolto nella Basilica di Santa Maria Maggiore, luogo simbolico della devozione mariana e tappa obbligata di ogni suo viaggio apostolico, suggerisce qualcosa che va oltre la semplice tradizione. Non sembra solo un’espressione affettuosa, di affidamento, né una scelta casuale, ma un atto teologico e umano insieme, che intreccia la figura della Vergine Maria con la propria esperienza esistenziale, segnata fin dall’infanzia dalla presenza amorevole e forte della figura femminile, che alcuni biografi del Santo Padre fanno risalire alla nonna materna, Rosa.
È lecito chiedersi se in questo gesto si celi una diversa percezione del divino. Se Giovanni Paolo II si congedava evocando il Padre, Francesco compie un itinerario che si chiude nel grembo della Madre. Piuttosto che una contrapposizione, appare un’integrazione, forse persino un compimento. Il Dio di Francesco non si declina unicamente al maschile: è il Dio “che ha compassione come una madre”, è il Dio della Trinità, che nell’icona dello Spirito Santo — simbolicamente il più sfuggente dei Tre — talvolta ha ispirato rappresentazioni dalla connotazione più dolce, accogliente, persino materna. È forse in questa figura, nello Spirito che consola, che Francesco ha riconosciuto quell’abbraccio materno e docile di pace che cercava.
La scelta di Francesco parla anche al cuore del popolo di Dio e suggella il ruolo crescente assunto nella pietà popolare dalla Madre di Gesù, specialmente nei momenti di sofferenza, di guerra, di lutto. Non è un’alterazione della teologia trinitaria, ma la manifestazione di un bisogno: quello di una prossimità sensibile, di una tenerezza che cura.
Dio, che dice “Io sono Colui che sono”, sfugge alle categorie di genere. Eppure, storicamente, si è spesso declinato come Padre, Re, Signore. Questo ha avuto ricadute significative sulla costruzione patriarcale delle strutture ecclesiastiche e sociali.
Ma se l’essere umano è creato “a immagine e somiglianza di Dio”, come dice la Genesi, allora in Dio si riflette anche il femminile. La teologia non dovrebbe temere di interrogarsi per rafforzare la pienezza del volto di Dio. Forse Francesco, con la sua ultima richiesta, ha tracciato una strada di ritorno non solo alla Madre, ma a una Chiesa che sappia vedere Dio anche con occhi materni.
Il suo gesto parla di un Dio che ascolta, che accoglie, che consola come una madre: un Dio che, più che definirsi, vuole farsi incontrare. Ed è in questo incontro che si apre la speranza cristiana: che il ritorno all’origine, al Padre o alla Madre, non sia che un ritorno all’Amore.








