Dopo il miracolo della reincarnazione politica, dopo essersi mostrato in conciliabolo con Zelensky accanto alle spoglie di Francesco, nell’icona più potente del cattolicesimo globale, Donald Trump concede sul palcoscenico del mondo la blasfemia perfetta: un fotomontaggio con abiti papali. Non è solo dissacrazione. È appropriazione del simbolo: il Papa vero, il Papa buono, viene ridotto a comparsa nel culto postumano del Papa-fake, il Trump che si incorona Pontifex Maximus delle masse digitali.
Non c’è provocazione politica in senso classico. Non c’è satira. È un gesto più simile alla magia nera: sottrarre potere al simbolo per inocularlo nel proprio corpo-immagine. L’assenza di sensibilità morale o religiosa non è più una mancanza: è programma. Il “rispetto” – per amici, nemici, alleati, santi o dannati – è bandito. Ogni relazione si risolve nel rapporto servo-padrone. Chi non si inginocchia, sparisce. Anche i ricchissimi, per sedere al tavolo, devono baciare il sacro deretano dell’Imperatore.
Il politicamente scorretto, in questa chiave, non è più semplice ribellismo. È una lingua rituale. Parla al “suo” popolo – non Harvard, ma il bar del Midwest – con le stimmate di un’epica post-verità, dove non conta la ragione ma il grado di virilità performativa. Chi urla più forte, vince. Chi esagera, convince. Chi mente, crea.
Il lessico trumpiano è diventato il nuovo esperanto del disprezzo. Semplice, irruento, istantaneo. Non mira a convincere: perfora. Non costruisce: annienta. Allaga il mondo come un’alluvione di fango semantico che ottunde ogni resistenza critica, neutralizza le sfumature del linguaggio, sterilizza il pensiero. Ogni gesto è un’arma: il grugno, la boutade, il ribaltamento spudorato di una menzogna appena detta. Non c’è trama, non c’è coerenza, ma solo la bulimia di presenza e il dominio sulla realtà tramite lo shock. E tutto questo non interferisce, non pone dubbi né domande, non pretende una riflessione, un ragionamento, una vigilanza, la ricerca di un’identità da parte di chi, in Italia, proclama lealtà e amicizia verso questo mondo del disprezzo e della negazione di ogni valore, come fanno i rappresentanti dell’istituzioni al massimo livello: la Presidente del Consiglio, Meloni, il vice Presidente del Consiglio, Salvini?
Ma è solo l’America profonda a parlare? Oppure stiamo assistendo alla nascita di un nuovo archetipo del potere globale? Trump non è un’anomalia. È un format. Una struttura replicabile. Da Milei a Meloni, da Orban a Musk, l’egolatria del leader comunicante, capace di hackerare ogni codice simbolico – religioso, politico, culturale – è diventata modello. La deriva non è più solo politica: è ontologica. La realtà è ridotta a superficie manipolabile, dove la verità dura meno di un meme e le istituzioni contano meno di una diretta su Truth Social.
E l’Europa? L’Italia? Sono le prime a essere risucchiate da questa risacca. Nel giorno dei funerali, la Presidente Meloni ha invitato a pranzo Milei, il Presidente argentino, l’uomo che più di ogni altro si avvicina a Trump.
La vecchia élite liberale – già delegittimata – tenta di sopravvivere rifugiandosi nei recinti della tecnica, nei regolamenti, nella moderazione retorica. Ma non sa parlare ai corpi. Così, mentre il trumpismo si fa religione secolare, la risposta europea resta procedurale, stanca, afona.
Meloni – oggi “responsabile”, domani forse tentata dalla stessa iconoclastia trumpiana – è il laboratorio italiano di questo nuovo potere. Più soft, più abile a mascherarsi da garanzia, ma in fondo nutrita dalla stessa energia: una ribellione permanente senza programma, se non quello di sostituire la realtà con l’identità del leader.
Prepariamoci a un futuro in cui la diplomazia si misurerà con i meme, la religione con i fotomontaggi, la politica con la virilità digitale. Dove l’egemonia culturale sarà sostituita dall’egemonia algoritmica. In cui l’Italia – periferia dell’impero, euforica nella sua eterna adolescenza – rischia di diventare laboratorio permanente di ogni eccesso, senza più anticorpi resistenti.
Il trumpismo non è un’ideologia. È un virus semiotico. E ha già infettato l’aria che respiriamo.








