Israele è spesso definito “l’unica democrazia del Medio Oriente”. È una definizione rassicurante, utile a costruire alleanze, a giustificare scelte geopolitiche, a presentare lo Stato ebraico come baluardo di civiltà liberale in un contesto regionale ostile e instabile. Ma la realtà, oggi, è ben più complessa. La democrazia israeliana è diventata una democrazia selettiva, etnica, messianica. E la sua deriva autoritaria, alimentata da un progetto ideologico-religioso che ha progressivamente colonizzato lo Stato e le sue istituzioni, non può più essere ignorata.
Il governo guidato da Benjamin Netanyahu – il più a destra della storia del paese – è sostenuto da forze ultraortodosse e sioniste religiose che, in nome della “Terra dei padri”, perseguono una visione teocratica e suprematista dell’identità ebraica. Ministri come Bezalel Smotrich (Finanze) e Itamar Ben-Gvir (Sicurezza nazionale) non fanno mistero del loro obiettivo: cancellare la prospettiva di uno Stato palestinese, annettere de iure i territori occupati, e trasformare Israele in uno Stato ebraico non solo di fatto, ma anche secondo un’ideologia messianica che esclude e opprime chi ebreo non è.
Il punto cruciale, raramente discusso nei media occidentali, è che molti dei sostenitori di questo progetto teocratico non combattono. Gli ebrei ultraortodossi (Haredim) – oggi circa il 13-15% della popolazione e destinati a diventare un terzo entro il 2050 – godono di un’esenzione sistemica dal servizio militare, sancita dagli accordi stipulati sin dalla nascita dello Stato nel 1948 e confermata dai governi di Netanyahu.
In sostanza: mentre i giovani israeliani laici o sionisti nazionalisti sono obbligati a combattere – molti di loro muoiono, molti si oppongono interiormente a un sistema che li arruola a forza – gli Haredim dedicano la loro vita allo studio della Torah, finanziati dallo Stato, e si rifiutano di difendere fisicamente il progetto politico-religioso che loro stessi sostengono. A farlo devono essere gli altri.
Nel frattempo, nei Territori Occupati, i coloni religiosi – spesso armati e protetti dall’esercito – conducono una guerra quotidiana a bassa intensità contro le comunità palestinesi. Alcuni di loro invocano apertamente la pulizia etnica, altri lavorano pazientemente all’espulsione di fatto, impedendo ai palestinesi l’accesso all’acqua, alle terre coltivabili, al movimento.
È in questo contesto che si comprende il carattere radicale, disumanizzante e apparentemente irrazionale dell’attuale campagna militare a Gaza. L’orrore del massacro del 7 ottobre – 1.200 morti israeliani, atrocità efferate – ha certo innescato una reazione militare. Ma la risposta va ben oltre ogni logica di rappresaglia. Ha le caratteristiche di una guerra escatologica, volta non solo alla distruzione militare di Hamas, ma alla punizione collettiva di un popolo intero.
Lo stesso Smotrich ha affermato che i palestinesi devono “capire che hanno perso” e che “non c’è futuro per una nazione nemica all’interno della nostra terra”. Il linguaggio è quello della vendetta biblica. L’obiettivo, quello di impedire ogni possibilità di coesistenza. Non è una guerra tra eserciti. È una guerra tra un progetto religioso-ideologico e una popolazione percepita come intrinsecamente illegittima.
Il risultato? Più di 35.000 morti a Gaza (molti di più secondop altre fonti) , la maggior parte civili. Ospedali bombardati, campi profughi distrutti, fame usata come arma. Tutto questo viene razionalizzato non solo in termini di “guerra contro il terrorismo”, ma come necessità teologica, come riaffermazione della sovranità su una terra promessa. Non è un caso se il ministro Ben-Gvir ha recentemente visitato la Spianata delle Moschee – un gesto provocatorio – ribadendo che “Gerusalemme è solo nostra”. L’uso della religione è strumentale alla colonizzazione e alla negazione dell’altro.
Il paradosso è evidente. Israele resta formalmente una democrazia, con tribunali indipendenti (ancora per quanto?), stampa libera, e diritto di voto. Ma è una democrazia per alcuni, non per tutti. I cittadini palestinesi d’Israele (circa il 20% della popolazione) vivono discriminazioni sistemiche; nei territori occupati, i palestinesi non hanno alcun diritto politico e vivono sotto regime militare. E oggi, persino la società ebraica laica è minacciata da un potere religioso che vuole ridurre i poteri della Corte Suprema, dominare l’istruzione e imporre regole clericali nella vita quotidiana.
L’idea che Israele sia “una fiaccola nel buio del Medio Oriente” è sempre più una retorica comoda e svuotata, usata per disinnescare le critiche e giustificare ogni azione in nome della sicurezza. Ma una democrazia non può essere tale se fonda il proprio potere sull’apartheid territoriale, l’esenzione religiosa, la violenza impunita e la negazione sistematica dell’umanità altrui.
Per l’Occidente Israele è alleato strategico, laboratorio tecnologico, avamposto ideologico. Ma è anche, oggi, uno specchio inquietante delle nostre contraddizioni: l’idea che una democrazia possa convivere con l’oppressione, che i diritti umani siano negoziabili, che si possa combattere il fondamentalismo islamico con un fondamentalismo ebraico, pur che sia “nostro”. Guardare in faccia ciò che Israele è diventato – e ciò che vuole diventare – non significa negarne il diritto a esistere. Significa rifiutare l’idea che esista un solo popolo, un solo Dio, un solo esercito, e un solo diritto. E denunciare, senza ambiguità, l’inaccettabile disumanità di una guerra che è, prima ancora che militare, spiritualmente corrotta.
 
			 
			







