C’è un vecchio detto, ma potremmo chiamarla invettiva sprezzante, che ha un record di resilienza invidiabile: armiamoci e partite. Una efficace metafora diretta a coloro che decidono, consci che le loro decisioni peseranno sulle spalle di altri. Il sarcasmo velenoso non è solo un modo di denunciare l’irresponsabilità e la furbizia, ma una realtà, tutta israeliana, contro la quale, dopo quasi settant’anni, gli israeliani si sono ribellati. Ora non sarà più così.
A scandire le ragioni della guerra — sempre e comunque, per fare nascere il Grande Israele e aspirare così alla venuta del Messia — è stata la minoranza religiosa e politica dei messianici; i giovani mandati a combattere sono stati… gli altri. Gli studenti delle yeshivah sono stati esentati. Il bagno di sangue recente a Gaza ha costretto il governo ad abolire l’esenzione, e gli esentati, con le loro famiglie, sono scesi in piazza a protestare a Gerusalemme, per difendere il privilegio d’essere esclusi dall’obbligo di difendere il Paese — un privilegio, diciamolo, ipocrita e furbo, costruito sulla pelle altrui.
L’episodio ha un valore che travalica il contingente: racconta la frattura profonda che attraversa la società israeliana. Da una parte, un Paese che si definisce democrazia liberale, pluralista e occidentale; dall’altra, un corpo teocratico che ne plasma le scelte, ne indirizza la politica estera e, sempre più spesso, ne condiziona la stessa identità. Israele è una democrazia parlamentare, ma con un’anima teocratica che non ha mai smesso di pulsare: un’alleanza politica tra partiti ultraortodossi e sionismo religioso che, da almeno vent’anni, rappresenta la chiave di volta di ogni maggioranza di governo.
La legittimazione ideologica delle guerre ricorrenti a Gaza o in Cisgiordania nasce anche qui: nel linguaggio biblico trasformato in dottrina politica, nella promessa messianica convertita in programma di governo. La “terra promessa” diventa così un progetto geopolitico, e la difesa dello Stato un dovere sacro, spesso piegato a fini di potere, come nel caso del capo del governo, Netanyahu. La teologia militante che giustifica le colonie ebraiche in territori occupati si intreccia con la strategia militare di difesa, creando un ibrido: uno Stato laico che combatte anche per motivi religiosi.
La protesta dei giovani religiosi, o meglio dei loro congiunti, mostra l’altra faccia di questa alleanza: il privilegio della fede che si sottrae al sacrificio comune, il servizio militare. È come se la religione, da fonte di coesione, fosse diventata un dispositivo di disuguaglianza. Non è un caso che le piazze di Gerusalemme siano oggi un mosaico di contraddizioni: madri di soldati caduti accanto a madri di studenti che non partiranno mai; veterani di guerra contro rabbini che predicano l’attesa del Messia; cittadini laici che chiedono equità di fronte alla morte, mentre altri invocano l’intervento divino.
È in questa frattura che Israele misura oggi la propria crisi d’identità: democrazia o teocrazia, repubblica di cittadini o regno di eletti? Il Paese che nacque per garantire sicurezza e autodeterminazione al popolo ebraico si ritrova prigioniero di una contraddizione che rischia di minarne le fondamenta morali. E forse, proprio in questo dibattito sulla leva militare, si nasconde la domanda più radicale: chi ha il diritto — o il dovere — di difendere uno Stato che, a volte, sembra appartenere più a Dio che ai suoi cittadini? Un Dio di cui si usa ed abusa.







