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L’ombra lunga dell’America: 50 anni di dipendenza, golpismo e zone grigie. Ma oggi è peggio

14/06/2025
in Articoli
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La storia della Repubblica italiana è anche – e forse soprattutto – la storia di una dipendenza, come quella che viviamo e che ci fa oggi tanta rabbia, perché non è figlia di una storia comune, ma di una storia diversa, scritta da un tizio, Donald Trump, che la tradisce ogni giorno con le sanzioni, presentate come dazi, le insolenze, gli accordi sottobanco con la Russia a nostro danno, con paesi governati da sterminatori di popoli, la corsa agli affari (personali), gli atti illiberali a casa sua. Il problema è diventato serio, insomma. Dobbiamo guardarci indietro, per guardare a quel che accade.

Non è stata una semplice alleanza quella con l’America, come la narrazione ufficiale preferisce ripetere, ma un rapporto asimmetrico, pervasivo, silenziato, in cui le sorti dell’Italia sono spesso state decise altrove. Washington, Langley, Bruxelles: tre capitali, una sola regia. E al centro, un Paese formalmente sovrano ma di fatto commissariato fin all’origine. Questo retaggio rende l’attuale dipendenza ancora più dura da digerire, perché ci fa stare accanto a qualcuno che non ha niente a che fare con noi.

Un ripasso di questa storia, piena di ombre e luci.

La Guerra fredda è stata il contesto fondativo di questa servitù. In un Paese con il più forte Partito Comunista d’Occidente, la posta in gioco era altissima: l’Italia non doveva, non poteva scivolare oltre la cortina di ferro. La strategia americana fu chiara fin dall’inizio: presidiare il territorio, controllare la politica, infiltrare la società. In cambio, l’Italia otteneva protezione e aiuti economici. Ma il prezzo fu la rinuncia all’autonomia.

Dal 1954 in poi, le basi NATO si moltiplicarono sul territorio italiano, spesso con testate nucleari americane custodite in silenzio nei hangar italiani. Le più note, da Ghedi a Aviano, da Sigonella a Comiso, furono veri e propri avamposti dell’impero americano. Ma dietro il concetto di “difesa comune” si celava l’evidenza: la sovranità italiana era subordinata agli interessi strategici USA, che tuttavia erano anche i nostri, in qualche misura (come oggi cominciamo a capire).

Roma non poteva né confermare né smentire la presenza di armi atomiche; non poteva decidere se e quando sarebbero state usate; non poteva neppure accedere alle informazioni strategiche che riguardavano il proprio territorio. Questa militarizzazione si accompagnava a una diplomazia parallela, affidata ai servizi segreti americani e alla loro controparte nazionale: il SIFAR prima, il SID poi, fino al SISMI. Una parte non irrilevante dell’intelligence italiana agiva sotto dettatura o copertura americana. Lo scandalo Gladio – la struttura “stay-behind” messa in piedi per un’ipotetica resistenza a un’invasione sovietica – fu solo la punta dell’iceberg. Gladio era un’operazione della NATO, ma con forti legami con la CIA e profondissime infiltrazioni negli apparati dello Stato italiano.

Nel 1964, il generale De Lorenzo progettò un colpo di Stato noto come Piano Solo. Formalmente per “garantire l’ordine pubblico”, il piano prevedeva l’arresto di politici, sindacalisti e intellettuali di sinistra. Fu sventato, ma non condannato. E non fu un caso isolato: nel 1970, il principe Junio Valerio Borghese, ex gerarca fascista, tentò un altro golpe, anch’esso avvolto nel silenzio e nella complicità. Dietro queste operazioni aleggiavano l’ombra delle strutture atlantiche, convinte che l’Italia potesse deragliare verso sinistra.

Il terrorismo nero, nelle sue forme più violente – dalla strage di Piazza Fontana (1969) a quella di Bologna (1980) – si muoveva in un ecosistema protetto e talvolta eterodiretto. I depistaggi, le piste coperte, gli archivi svaniti: tutto suggerisce che la strategia della tensione fu un dispositivo politico, funzionale a spostare il baricentro del Paese a destra e a giustificare la repressione dei movimenti sociali. Lo stesso terrorismo rosso – pur profondamente autonomo nelle sue radici – fu in parte infiltrato e manipolato per creare un clima di emergenza permanente. Il sequestro e l’assassinio di Aldo Moro, che tentava un compromesso storico tra DC e PCI, resta il simbolo più tragico dell’impossibilità di sfuggire a quel ricatto geopolitico.

E poi c’è la mafia, in particolare quella siciliana, che per decenni ha svolto un ruolo preciso nella geografia occulta del potere. Già durante lo sbarco degli Alleati in Sicilia (1943), la collaborazione tra OSS (poi CIA) e Cosa Nostra fu determinante per agevolare l’avanzata americana. In cambio, la mafia ottenne legittimazione, impunità, protezione. Quel patto non finì con la guerra.

Per quattro decenni, Cosa Nostra ha trafficato in armi, droga, petrolio e voti, operando anche come braccio non ufficiale di operazioni coperte. La rotta della droga, tra Turchia, Sicilia e Stati Uniti, serviva a finanziare operazioni clandestine; le armi venivano stoccate o transitate sotto occhi distratti; la violenza veniva tollerata finché funzionale a un equilibrio più grande. I boss mafiosi – da Luciano Liggio a Totò Riina – furono al tempo stesso criminali e nodi della rete di potere, fino a quando non divennero troppo ingombranti.

Quando lo Stato provò a ribellarsi – con Falcone, Borsellino, la stagione di Mani Pulite – fu troppo tardi. O troppo solo. Il sangue dei magistrati fu il prezzo della riconquista tardiva di una sovranità mai del tutto posseduta. L’Italia post-Guerra fredda non ha reciso il cordone ombelicale. Anzi, lo ha trasformato in un cordone digitale: siamo oggi ospiti permanenti delle infrastrutture americane, dalla cybersicurezza al cloud, dalla NATO all’intelligence globale. Siamo parte integrante della guerra per procura in Ucraina, della militarizzazione del Mediterraneo, della subalternità alle piattaforme americane.

E mentre il potere a stelle e strisce si sdoppia – fra un presidente che gioca alla guerra e un miliardario che gioca a Dio – l’Italia resta prigioniera del suo passato non elaborato. Ha barattato la sicurezza con la dipendenza, la fedeltà con l’invisibilità, la libertà con la delega.

La sovranità italiana è stata spesso evocata come un valore, raramente come una pratica. La sua erosione non è solo questione militare o diplomatica: è una questione culturale. Abbiamo interiorizzato la subordinazione come normalità. Ci siamo rassegnati a contare poco, purché fossimo “protetti”. Ma in un mondo multipolare, in cui gli Imperi si frantumano e i centri si moltiplicano, questa dipendenza diventa una condanna. In più, ed è la cosa più rilevante, questa subordinazione ci costringe ad una amicizia, l’America di Trump, che non ha niente a che vedere con noi e con la nostra storia comune.

 

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Tags: americaarmiCosa Nostradazidipendenzadrogaluciano liggiomafiaNATOolpismopetroliosanzionisubordinazioneterorismototò riinatrump

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