Trump ha ridefinito la politica americana attraverso lo slogan “Make America Great Again”, trasformandolo in un’ideologia identitaria, esclusiva, suprematista. Netanyahu ha seguito un percorso simile, facendo proprio lo slogan “Am Yisrael Chai” (il popolo d’Israele vive), usato non solo come formula di resilienza, ma come parola d’ordine per una rinascita etnica e confessionale dello Stato.
I due leader condividono un’antropologia politica simile: credono nella nazione come comunità organica fondata su un patto sacro, non sull’universalismo dei diritti. Hanno ridotto la democrazia a uno strumento per legittimare il potere della maggioranza “vera” contro minoranze, dissidenti, migranti, arabi, neri, donne, intellettuali, giudici.
E condividono anche una retorica dello scontro finale. Nelle visioni di entrambi, il mondo è diviso fra “noi” e “loro”, fra i redenti e i corrotti, fra la civiltà cristiano-ebraica e un nemico comune: i “globalisti”, i “liberali”, i musulmani, i migranti, gli oppositori interni.
Questa alleanza ideologica produce conseguenze geopolitiche dirette. Con il ritorno di Trump alla Casa Bianca – possibilità concreta secondo tutti i sondaggi attuali – si delinea un asse internazionale del suprematismo, che va da Gerusalemme a Washington, passando per Varsavia, Budapest e perfino l’India nazionalista di Modi.
In questo asse, i diritti umani diventano ostacoli, il diritto internazionale un’opinione, l’uguaglianza una bestemmia. Gli Stati non sono più spazi condivisi, ma recinti identitari, fortezze etniche, roccaforti religiose. E la guerra, lungi dall’essere un fallimento, diventa strumento di purificazione, rigenerazione, dominio.
L’Unione Europea balbetta. Gli Stati Uniti ufficiali fingono neutralità. Ma ogni finanziamento militare a Israele, ogni invito a Netanyahu, ogni tolleranza verso i proclami suprematisti di Trump, equivale a un avallo implicito a questa visione del mondo. Una visione che trasforma la religione in ideologia, la storia in profezia, la giustizia in vendetta.
Nel 1938, l’Occidente scelse di non vedere l’alleanza fra ideologia razziale e delirio politico. Oggi, non possiamo commettere lo stesso errore. Il legame fra suprematisti cristiani americani e suprematisti ebraici israeliani è già operativo, strutturato, finanziato, e globalmente connesso. È tempo di nominarlo per quello che è: una minaccia alla democrazia ovunque essa esista.
“Make Israel Great Again”: il progetto comune
Trump ha ridefinito la politica americana attraverso lo slogan “Make America Great Again”, trasformandolo in un’ideologia identitaria, esclusiva, suprematista. Netanyahu ha seguito un percorso simile, facendo proprio lo slogan “Am Yisrael Chai” (il popolo d’Israele vive), usato non solo come formula di resilienza, ma come parola d’ordine per una rinascita etnica e confessionale dello Stato.
I due leader condividono un’antropologia politica simile: credono nella nazione come comunità organica fondata su un patto sacro, non sull’universalismo dei diritti. Hanno ridotto la democrazia a uno strumento per legittimare il potere della maggioranza “vera” contro minoranze, dissidenti, migranti, arabi, neri, donne, intellettuali, giudici.
E condividono anche una retorica dello scontro finale. Nelle visioni di entrambi, il mondo è diviso fra “noi” e “loro”, fra i redenti e i corrotti, fra la civiltà cristiano-ebraica e un nemico comune: i “globalisti”, i “liberali”, i musulmani, i migranti, gli oppositori interni.
Questa alleanza ideologica produce conseguenze geopolitiche dirette. Con il ritorno di Trump alla Casa Bianca – possibilità concreta secondo tutti i sondaggi attuali – si delinea un asse internazionale del suprematismo, che va da Gerusalemme a Washington, passando per Varsavia, Budapest e perfino l’India nazionalista di Modi.
In questo asse, i diritti umani diventano ostacoli, il diritto internazionale un’opinione, l’uguaglianza una bestemmia. Gli Stati non sono più spazi condivisi, ma recinti identitari, fortezze etniche, roccaforti religiose. E la guerra, lungi dall’essere un fallimento, diventa strumento di purificazione, rigenerazione, dominio.
L’Unione Europea balbetta. Gli Stati Uniti ufficiali fingono neutralità. Ma ogni finanziamento militare a Israele, ogni invito a Netanyahu, ogni tolleranza verso i proclami suprematisti di Trump, equivale a un avallo implicito a questa visione del mondo. Una visione che trasforma la religione in ideologia, la storia in profezia, la giustizia in vendetta.
Nel 1938, l’Occidente scelse di non vedere l’alleanza fra ideologia razziale e delirio politico. Oggi, non possiamo commettere lo stesso errore. Il legame fra suprematisti cristiani americani e suprematisti ebraici israeliani è già operativo, strutturato, finanziato, e globalmente connesso. È tempo di nominarlo per quello che è: una minaccia alla democrazia ovunque essa esista.








