Quello che vi raccontiamo sembra uscito da una penna satirica, e invece è cronaca, anzi metanarrazione. A Bruxelles, durante il Consiglio europeo, è andata in scena una rappresentazione che pare una disfida, e qualcuno, con zelo di sceneggiatura, ha pensato bene di darle i toni epici. Sul palco: Giorgia Meloni e il Presidente della Repubblica Federale di Germania, Frank-Walter Steinmeier. Lei, l’eroina fiera; lui, il cavaliere teutonico che osa parlare di regole – “nulla di più”, dirà con impeccabile sobrietà. Ma basta questo, a quanto pare, per far scattare l’ira italica.
La scena è già pronta per un montaggio video da battaglia medievale. Meloni che si inalbera, sfodera parole dure, difende l’onore nazionale come una novella Bradamante; e Steinmeier, pacato e diplomatico, trasformato in nemico giurato della patria, reo di aver chiesto il rispetto delle regole comuni. Nessun dettaglio, solo un ammonimento formale – ma è abbastanza, a quanto sembra, per farlo figurare come il nuovo Macron, o il nuovo Sanchez: un altro “nemico europeo” da archiviare.
Ma chi racconta la scena? Fonti adulatrici della Presidente, naturalmente. Quelle che da giorni si esercitano nel tentativo, non sempre riuscito, di mutare l’immagine consolidata di Giorgia Meloni: non più quella della leader silenziosa, accomodante, zelante verso i voleri di Washington, bensì una statista tosta, capace di mettere sull’attenti mezza Europa.
E qui il punto.
Perché se la Premier, di fronte alle intemperanze di Trump, resta placida, quasi affettuosa, quasi partecipe, e non muove ciglio mentre l’amico americano umilia l’Europa, punzecchia Zelensky, liquida la NATO come una carabattola costosa – e tutto questo al vertice di pochi giorni prima – allora lo scatto d’ira contro Steinmeier, il più mite e filoitaliano tra i capi di Stato europei, appare quanto meno selettivo. Anzi, sospetto.
C’è un doppio registro, ormai abituale, nella retorica meloniana. Quando si tratta di Stati Uniti, e soprattutto di Donald Trump ( del comune amico, Netanyahu), ogni provocazione è accolta con riverenza, ogni insulto con compostezza, ogni imposizione con obbedienza dissimulata. Ma quando a parlare è un leader europeo, ecco che si sfodera la spada, si alza la voce, si invoca l’orgoglio nazionale.
Il paradosso è che Steinmeier, vecchio amico dell’Italia e di Mattarella, rappresenta tutto ciò che in Europa dovrebbe rassicurare: un equilibrio tra memoria storica, cultura costituzionale e moderazione. Non è un falco, non è un predicatore. È semmai un pontiere. E allora perché proprio lui? Perché alzare i toni con chi tende la mano mentre si tace con chi impone il bastone?
La risposta non è difficile. Trump, come noto, non gradisce che gli europei parlino di regole, trattati, condivisione. Preferisce l’adesione, la lealtà personale, il culto. Chiunque – leader, Stato, organismo – metta in dubbio la sua visione bilaterale e pretoriana delle relazioni internazionali viene bollato come inaffidabile. In questo schema, Meloni adotta la prudenza: tace, china il capo, poi lo rialza e colpisce – ma solo in direzione opposta. È una politica del ruggito selettivo. Una Durlindana a intermittenza. Urlare contro Berlino o Madrid non costa nulla, anzi porta consensi domestici e rilancia la leggenda dell’Italia che non si fa mettere i piedi in testa. Ma con Washington – e con l’uomo che forse guiderà di nuovo la Casa Bianca – meglio non rischiare. Meglio sembrare docili, o quantomeno remissivi.
Così il doppio gioco si perpetua. Da una parte la Premier che sfida l’Europa in nome dell’Italia; dall’altra la stessa Premier che si presenta a Washington con il cappello in mano, e firma senza batter ciglio la cambiale delle forniture militari. L’indipendenza, si sa, è virtù che si esercita con i deboli.
Alla fine, di questo episodio brussellese, restano due immagini: quella raccontata dai fedelissimi, in cui Meloni sembra uscita da un poema cavalleresco; e quella reale, in cui a combattere non è l’Europa, ma la narrazione. Ed è lì che si consuma la vera disfida








