C’è qualcosa di straniante – e dunque profondamente significativo – nella reazione dell’establishment politico, istituzionale e mediatico all’inchiesta milanese che coinvolge il sindaco Giuseppe Sala e noti urbanisti del capoluogo lombardo. Non si tratta solo della consueta prudenza, o della stanca riproposizione del garantismo rituale che accompagna ogni avviso di garanzia a carico di figure pubbliche. È qualcosa di più profondo, un cambiamento di tono e di paradigma: il day-after degli arresti e delle perquisizioni non ha visto né indignazione popolare né l’assedio mediatico che, trent’anni fa, avrebbe reso inevitabile una risposta collettiva e brutale. Nessuna Tangentopoli, nessuno tsunami, nessuna piazza in fermento. Al contrario, una strana, quasi composta difesa bipartisan.
Colpisce – e dovrebbe far riflettere – l’intervento del presidente del Senato Ignazio La Russa, figura per nulla sospettabile di simpatia per l’area politica di Sala, nel difendere il sindaco con parole precise: “Non si usi come capro espiatorio” , o del Ministro della Difesa, Crosetto e del Presidente della Regione Fontana (entrambi di centrodestra). È un indizio potente del clima che si respira nel Paese, dove le inchieste giudiziarie non solo non mobilitano più l’opinione pubblica, ma anzi suscitano fastidio e sospetto.
Questa mutazione si regge su una tensione irrisolta: da un lato, la politicizzazione della magistratura, accusata oggi non tanto di perseguire la corruzione quanto di voler mettere sotto accusa il principio stesso del profitto, la legittimità dell’agire capitalistico; dall’altro, una saldatura trasversale fra partiti, media e corpi intermedi che si stringe a difesa delle proprie classi dirigenti, respingendo implicitamente l’idea di una magistratura “moralizzatrice”.
L’impressione è che la magistratura milanese – peraltro storicamente protagonista delle più dirompenti stagioni giudiziarie italiane – oggi operi quasi in un vuoto pneumatico di consenso sociale. Il sospetto che aleggia, più o meno dichiaratamente, è che i PM intendano giudicare non tanto i reati, ma le logiche del potere e del profitto, sconfinando in una funzione “extragiudiziaria” che richiama i fantasmi (o le glorie, secondo i punti di vista) di Mani Pulite.
Ma, attenzione: il fatto che il sistema reagisca in difesa non implica necessariamente l’innocenza dei protagonisti coinvolti. È solo l’indizio che la narrazione è cambiata. Se negli anni ’90 l’indagato era automaticamente un colpevole da sacrificare sull’altare dell’opinione pubblica, oggi potrebbe prevalere una forma di garantismo “conveniente” che, in certi casi, può trasformarsi in complicità interessata.
In questo contesto, l’unico soggetto politico a mantenere una postura colpevolista netta è il Movimento 5 Stelle, con l’appoggio sistematico de Il Fatto Quotidiano (o viceversa…). È un giustizialismo di ritorno, che considera l’indagato colpevole fino a prova contraria e che non nasconde un dissenso pregiudiziale e sistemica per tutto ciò che odora di potere consolidato. Una posizione non priva di contraddizioni dopo una immersione governativa lunga e segnata da episodi di adesione ai riti della casta: lo stesso giornale che invoca la presunzione di colpevolezza per i politici nostrani si fa megafono di tesi ben più indulgenti nei confronti, per esempio, della Russia di Putin e della sua invasione dell’Ucraina.
Quello che sembra emerge dall’inchiesta milanese, quindi, non è tanto la ricerca di una verità giudiziaria quanto una verità simbolica: la magistratura, oggi, non ha più il monopolio della narrazione morale, e le categorie di colpa, innocenza, interesse e ideologia si sovrappongono. Nel nuovo equilibrio fra diritto, potere e comunicazione, la giustizia rischia di essere non più la spada, ma il riflesso sbiadito di battaglie che si combattono altrove.








