Errore o attacco deliberato alla Chiesa cristiana di Gaza? E’ancora tutta da chiarire la dinamica dell’attacco militare in cui sono morte tre persone e altre 20 sono rimaste ferite. I vertici israeliani hanno annunciato l’apertura di un’inchiesta mentre il ministero degli Esteri di Tel Aviv ha espresso “profondo rammarico”. Fonti vicine alla cancelleria del patriarcato hanno dichiarato al quotidiano The Pillar che alcuni funzionari ritengono possa essersi trattato di un atto deliberato di ritorsione. (ISPI), Sia stato un errore o meno, esso rientra nella strategia di guerra di Israele, per la quale l’algoritmo che reclama l’attacco contro il nemico ricorre anche quando l’asticella è bassa e gli effetti collaterali molto probabili.
La questione cruciale sollevata – se l’attacco che ha colpito il complesso che ospitava centinaia di rifugiati, tra cui donne, anziani e bambini disabili, sia stato un errore o un atto deliberato – si situa al crocevia fra analisi militare, etica del conflitto e logica strategica dell’apparato bellico israeliano. Al di là della versione ufficiale, che parla di un errore di fuoco da parte di un carro armato, il vero nodo interpretativo non risiede tanto nella dinamica contingente quanto nella struttura sistemica che la rende possibile, prevedibile, forse addirittura funzionale.
Va dunque problematizzata la natura dell’“errore” in un contesto in cui la selezione del bersaglio non è il frutto di un’improvvisazione umana, ma spesso il risultato di un processo algoritmico. Israele ha perfezionato nel tempo una dottrina militare che integra l’uso massivo di tecnologie predittive, intelligenza artificiale e raccolta iper-quantitativa di dati per generare valutazioni di minaccia in tempo reale. In questo quadro, l’algoritmo che autorizza l’attacco non è cieco, ma programmato per agire su base probabilistica: valutare il rischio, pesare i costi collaterali e “decidere” se colpire. È in questo punto che si situa il cuore della tua riflessione: se l’asticella della minaccia percepita è abbassata sistematicamente, allora l’errore non è un’eccezione, ma una prevedibile conseguenza della logica stessa dell’ingaggio.
Non siamo, dunque, dinanzi a un’anomalia del sistema, ma al suo esito interno coerente. L’eufemismo “errore” cela il fatto che l’architettura dell’intervento armato – anche quando assume una forma difensiva o reattiva – è costruita su una soglia di tolleranza molto alta per i cosiddetti “effetti collaterali”. In altri termini, la probabilità che un obiettivo civile venga colpito non è più un accidente tragico, ma una variabile integrata nel calcolo del danno accettabile.
Si tratta di una strategia di dissuasione che rovescia il principio fondamentale del diritto internazionale umanitario: non più protezione dei civili come limite invalicabile, ma gestione del danno civile come coefficiente calcolato in una logica di superiorità tattica.
Il caso del colpo di carro armato sul complesso cristiano – al di là delle dichiarazioni di rammarico – rientra allora in una strategia ben più ampia, nella quale la pressione esercitata su infrastrutture civili o simboliche (come luoghi religiosi) serve da dispositivo comunicativo, oltre che operativo. In tal senso, anche un “errore” assume un valore funzionale: produce shock, dissuasione, intimidazione – effetti tutt’altro che accidentali in una guerra che si gioca anche sul piano del messaggio e della narrazione.
L’errore – vero o presunto – non si colloca fuori dal sistema di guerra israeliano, bensì al suo interno. È l’indicatore di una razionalità bellica che ha assorbito il rischio civile come componente di una strategia fondata su un bilancio costi-benefici in cui l’etica viene subordinata all’efficienza.








