Nel braccio di ferro con gli Stati Uniti sul fronte dei dazi, l’Europa ha deciso di non giocare la sua carta più pesante: la regolazione delle Big Tech. Ha preferito indietreggiare, lasciando campo libero a chi concentra il 60% del traffico dati globale ma non si sottopone nemmeno alla metà delle regole imposte alle telecom europee. È una resa in piena regola, mascherata da prudenza diplomatica.
Secondo l’ultimo report di Connect Europe , redatto con Arthur D. Little, la situazione è tanto squilibrata quanto insostenibile. Una manciata di colossi – Google, Meta, Amazon, Netflix – determina le regole del traffico digitale globale, sfruttando le infrastrutture costruite, mantenute e finanziate dagli operatori europei. Ma a differenza di questi ultimi, le piattaforme digitali non sono soggette a vincoli stringenti. Possono offrire servizi di messaggistica, voce, streaming e cloud senza essere sottoposti agli obblighi previsti per le “telco tradizionali”. Di fatto agiscono come operatori di telecomunicazione mascherati, ma senza gli stessi doveri.
In Europa, oggi, un operatore telecom deve rispettare 34 obblighi normativi, mentre una Big Tech appena una manciata. Il paradosso è che le piattaforme digitali sono diventate l’infrastruttura invisibile che regola la vita economica e sociale del continente. Eppure non pagano pegno.
«Le aziende europee non possono più competere con le mani legate dietro la schiena» ha detto senza mezzi termini Alessandro Gropelli, direttore di Connect Europe. Intanto i numeri parlano chiaro: tra il 2014 e il 2023, mentre la capitalizzazione media delle telco è calata dell’1,8% annuo, quella delle Big Tech è cresciuta del 36%. Il traffico aumenta, ma il valore resta altrove.
È un effetto boomerang a più livelli: meno regole equivalgono a meno tutele per i consumatori; la concorrenza è falsata; le aziende europee perdono attrattività e capacità di investimento. Il tutto mentre il traffico dati è destinato a triplicare entro il 2030.
Il report mette a nudo anche le distorsioni normative nei singoli Stati: l’Italia è classificata come uno dei Paesi “più restrittivi” per le telecomunicazioni, anche a causa del decreto Bersani del 2007, indicato come caso esemplare. L’impianto normativo nazionale è pensato per garantire diritti e protezioni, ma si ritorce contro chi investe, innova e assume.
Il punto è strategico. Se la forza negoziale europea doveva risiedere nella regolazione del digitale – unico vero campo dove Bruxelles ha competenza e influenza –, allora la rinuncia a imporre condizioni alle Big Tech rappresenta un suicidio politico. E coincide con la linea della debolezza.
Trump ha trasformato il dossier dazi in una ghigliottina: prendere o lasciare. Dazi al 10%, poi 30% e la minaccia di escalation se l’Europa prova a reagire con le stesse armi. Ma l’unica arma vera, la leva regolatoria, è rimasta nella fondina. La Commissione europea ha scelto di trattare, non di contrattare. Ha lasciato che il terreno di confronto venisse definito interamente a Washington.
Nel frattempo, le Big Tech continuano a drenare valore, a erodere concorrenza, a sottrarre margini fiscali. E l’Europa, invece di esigere compensazioni per l’uso delle proprie reti, si trova a dover giustificare la sua stessa esistenza industriale.
La guerra commerciale si combatte sul campo del digitale. E l’Europa l’ha già persa. Non per mancanza di mezzi, ma per assenza di volontà. In un continente che ha fatto del diritto la sua architrave politica, la rinuncia alla regolazione è un tradimento. Non dei mercati, ma dei cittadini.








