Fuor dal suo sen uscita, davvero. O meglio: uscita da Report, nell’ultima puntata, che ha mostrato un fuori onda finora ben custodito. Pochi secondi bastano a chiarire, oltre ogni ragionevole dubbio, una questione che da mesi divide maggioranza e opposizione, meloniani e non meloniani: il rapporto — o meglio, il non-rapporto — della premier con la stampa. La scena è a Washington, durante un incontro alla Casa Bianca. Donald Trump si avvicina, sorride ironico e chiede:
«Vuoi parlare con i giornalisti? Ce ne sono troppi…» Meloni risponde, con la stessa leggerezza, ma una chiarezza assoluta: «Io non voglio parlare mai con la mia stampa.»
Basta questo. Due battute, ma definitive. Un manifesto politico, più che una gaffe. Un fuori onda che chiude, di colpo, mesi di dispute: gli inviti rifiutati ai talk show “non controllati”, le interviste solo ai giornalisti amici, l’episodio del Sole 24 Ore — la premier che si alza e se ne va, lasciando a Giorgetti le domande sulla manovra, e i giornalisti del quotidiano economico in sciopero contro la censura di fatto.
Ora, dopo quel sorriso a Washington, tutto si allinea.
Negli Stati Uniti di Trump — lo ricorda Report mostrando immagini di giornalisti in fuga dal Pentagono — la libertà di stampa è scesa al 57° posto mondiale, dietro la Sierra Leone. E mentre i giornalisti americani protestano contro le regole restrittive imposte dal tycoon tornato in corsa per la Casa Bianca, in Italia si assiste a una forma più morbida, ma non meno efficace, di controllo dell’informazione: la selezione del messaggio, la marginalizzazione del dissenso, la concentrazione del potere mediatico.
Il contesto gioca un ruolo rilevante. La carta stampata arretra, le edicole chiudono al ritmo di 400 l’anno. I giornali online vivono in bilico, sostenuti da pubblicità che dipende — direttamente o indirettamente — da centri di potere politico ed economico. Nascono i giornali murali governativi, che sostituiscono le notizie con i tazebao. Le querele temerarie restano un’arma di intimidazione, tanto più efficace quanto più i giornalisti precari e i giornali impoveriti.
Nel servizio pubblico la situazione non è migliore: la RAI è ormai un terreno di conquista, dove la linea editoriale si muove al ritmo del consenso politico. Report resiste, ma isolato. Le altre testate del servizio pubblico oscillano tra autocensura e conformismo. Sul fronte privato, Mediaset è tornata a essere, come ai tempi d’oro, un’estensione della comunicazione governativa. Fa eccezione La7,un’isola residua, e pochissimi altri casi: redazioni che sopravvivono per ostinazione, più che per sostegno.
Il fuori onda di Washington, dunque, non è un incidente. È la sintesi perfetta di un’epoca. L’epoca in cui la classe politica rifiuta la critica come un’offesa personale, trasforma la comunicazione in propaganda e sogna una stampa come un apparato decorativo.
 
			 
			






