Il Servizio Sanitario Nazionale, che per decenni ha rappresentato uno dei pilastri della civiltà repubblicana e del patto sociale tra cittadini e Stato, vive oggi una crisi strutturale che non può più essere definita “emergenza”. È un declino programmato, lento, ma costante, una dismissione di fatto che apre sempre più la strada al privato e mina il principio stesso dell’universalità del diritto alla salute.
L’ottavo Rapporto Gimbe parla chiaro: in soli tre anni la sanità pubblica ha perso 13,1 miliardi di euro, mentre 41,3 miliardi di spese sanitarie sono finiti direttamente sulle spalle delle famiglie. Un dato che racconta una verità amara: un italiano su dieci ha dovuto rinunciare alle cure. Non per scelta, ma per impossibilità economica o per tempi d’attesa incompatibili con la necessità di curarsi.
Il quadro è tanto più grave se si considera che, secondo Gimbe, l’Italia è tra i primi Paesi in Europa per numero di medici, ma tra gli ultimi per numero di infermieri: una sproporzione che rende insostenibile l’assistenza territoriale e la presa in carico dei pazienti cronici. A questo si aggiunge il ritardo cronico del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza per la salute, che avrebbe dovuto rilanciare la rete di assistenza di prossimità: solo il 4,4% delle Case della Comunità risulta oggi pienamente operativo. Il resto è ancora sulla carta o nei cantieri, con bandi incompleti e personale insufficiente.
Eppure, il Governo continua a negare la crisi, affidandosi a una narrazione contabile che confonde i numeri con la realtà: “Il Fondo Sanitario Nazionale è aumentato”, si ripete. Ma come sottolinea il presidente Nino Cartabellotta, l’aumento nominale di 11,1 miliardi nel triennio 2023-2025 non basta nemmeno a compensare il taglio della quota di spesa sanitaria sul Pil, scesa dal 6,3% del 2022 al 6% del 2023, e destinata a fermarsi al 6,1% nel biennio 2024-2025.
In termini reali, la sanità pubblica perde terreno ogni anno: rispetto all’inflazione, all’invecchiamento della popolazione, all’aumento delle cronicità e alla crescita del costo dei dispositivi medici.
L’effetto domino è devastante.
Più si riducono i fondi e il personale, più si allungano le liste d’attesa, più cresce il ricorso al privato, che fiorisce sulle macerie del pubblico. Si paga due volte: una con le tasse e una di tasca propria. Chi non può permetterselo, rinuncia. Chi può, compra ciò che dovrebbe essere garantito. Il sistema duale è ormai sotto gli occhi di tutti: ospedali pubblici che chiudono reparti, pronto soccorso al collasso, medici di base ridotti all’osso, contratti bloccati e giovani professionisti in fuga verso l’estero o verso il privato convenzionato.
Dietro la retorica della “razionalizzazione” si nasconde un processo di privatizzazione strisciante, che non ha bisogno di leggi eclatanti per compiersi. Basta l’inerzia: lasciare che il pubblico muoia per consunzione, per mancanza di personale, per scoraggiamento organizzativo.
Il risultato è sotto gli occhi di chiunque varchi la soglia di un ospedale o provi a prenotare una visita: mesi di attesa per un’ecografia o una colonscopia, mentre la stessa prestazione è disponibile entro tre giorni, ma a pagamento, nella clinica accanto. Il diritto alla salute è diventato una questione di reddito.
Eppure, la Costituzione — articolo 32 — è chiarissima: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”. Ma se la Repubblica arretra e delega ai privati la cura dei cittadini, non è solo un sistema sanitario a morire: è l’idea stessa di eguaglianza sostanziale.
Serve un cambio di rotta immediato, non l’ennesimo piano annunciato. Servono risorse stabili e strutturali, non bonus o fondi a pioggia; assunzioni certe e incentivi al personale sanitario, non parole di riconoscimento; programmazione territoriale, non promesse di facciata.
Perché la “lenta agonia” del Servizio Sanitario Nazionale non è una fatalità. È una scelta politica.
E se non si invertirà la rotta, l’Italia rischia di scoprire troppo tardi che la sanità pubblica non muore in un giorno, ma un giorno alla volta.
 
			 
			







