Il de profundis della vigilia aggiunge agli elementi enunciati un altro tassello a favore del risultato negativo, cioè il non raggiungimento del quorum richiesto. Questa volta, tuttavia, sono i sindacati a metterci la faccia. I quesiti, con l’eccezione della cittadinanza), riguardano i lavoratori, la cosiddetta classe operaia, tendono a creare condizioni di lavoro più sicure e migliori.
Il referendum è un’arma a doppio taglio, chi lo impugna può farsi male. Molto male. Il clima di indifferenza sui cinque quesiti – quattro sul lavoro, uno sulla cittadinanza –rischia di trasformare una chiamata democratica in un gesto residuale. Secondo le rilevazioni più attendibili, meno di un terzo degli aventi diritto si dichiara “sicuro” di andare a votare. È il preludio a una sconfitta annunciata, non tanto per i contenuti – sui quali aleggia una maggioranza silenziosa di “sì” – ma per il mancato raggiungimento del quorum.
Stando alle rilevazioni più recenti ed ai pareri di esperti, i “sì” prevarranno, ma senza effetto. I temi posti resteranno sul tavolo, ma senza gambe per camminare. E la politica – quella che dovrebbe rispondere, ascoltare, decidere – continuerà a oscillare tra una maggioranza silenziosa e una democrazia a partecipazione facoltativa. Il risultato non sarà la vittoria di nessuno. Ma la sconfitta, quella sì, sarà ben distribuita.
Il sindacato ci ha messo la faccia, sperimenta la difficoltà di entrare in sintonia con i lavoratori e e rischia la sua credibilità come rappresentanza del mondo del lavoro, in considerazione dei contenuti del referendum. Le questioni poste – precarietà, sicurezza sul lavoro, tutele minime – non sembrano essere riuscite a mobilitare quel mondo del lavoro che ne sarebbe il beneficiario diretto. Lo scollamento segnala una crisi più profonda, una distanza strutturale tra rappresentanza politica, sindacale e corpo sociale. La retorica del “non ci ascoltano” rischia di ritorcersi contro chi non riesce più a farsi sentire.
Certo, c’è dell’altro: si apre una delle contraddizioni strutturali più evidenti del sistema referendario italiano: l’assurdità di un quorum assoluto in un contesto di crescente astensionismo e legittimità politica relativa. Oggi, per rendere valido un referendum abrogativo, è necessario che voti il 50% + 1 dell’intero corpo elettorale. Eppure le ultime elezioni politiche hanno registrato un’affluenza intorno al 63%: il governo in carica, espressione della maggioranza parlamentare, rappresenta di fatto circa un terzo della popolazione votante, se si tiene conto del risultato effettivo delle urne. È quindi paradossale che per abrogare una legge voluta da un esecutivo che rappresenta una minoranza relativa dei cittadini, si pretenda un quorum basato sulla totalità dell’elettorato.
Questa sproporzione non è un tecnicismo da giuristi: è il cuore del problema democratico. Se il parlamento può legiferare sulla base di una legittimazione minoritaria, perché il popolo, nel momento in cui è chiamato a pronunciarsi direttamente, dovrebbe superare una soglia più alta? L’esito referendario rischia così di essere sempre meno un termometro dell’opinione pubblica e sempre più un’arma spuntata, soggetta a un’interpretazione interessata: da un lato, i promotori potranno celebrare la maggioranza dei “sì”; dall’altro, il governo e le forze di maggioranza potranno rivendicare l’astensionismo come prova della disaffezione verso il tema – e dunque della propria legittimità a ignorarlo.








