In Gran Bretagna si voterà a sedici anni. In Italia, come in quasi tutte le democrazie, si vota dai diciott’anni. Ma è un confine legale, non reale. Perché essere maggiorenni nel diritto non implica necessariamente esserlo nella coscienza civile. Anzi, a guardare certe dinamiche della vita pubblica, l’impressione è che a decidere le sorti del Paese sia spesso una massa di maggiorenni anagraficamente tali, ma culturalmente minorenni. E non nel senso colto o astratto del termine, ma in quello più concreto: inconsapevoli, disinformati, disinteressati.
Il punto non è giudicare. È constatare un fenomeno sociale: il diritto di voto è esercitato – legittimamente – anche da chi non ha strumenti per valutare, comprendere, mettere in relazione. La povertà culturale, che non coincide con l’assenza di titoli di studio, priva il gesto del voto della sua funzione democratica più autentica: essere scelta, non reazione. Esprimere giudizio, non obbedienza. Se non si sa distinguere un programma da uno slogan, una proposta da una provocazione, una notizia da una manipolazione, il voto non è più voce, ma rumore indistinto.
Viviamo in una società sovraesposta all’informazione ma paradossalmente povera di sapere. L’accesso è ampio, ma l’elaborazione è debole. Il flusso continuo di contenuti, amplificato dai social, sostituisce l’approfondimento con l’impressione, la riflessione con la fretta, la complessità con la semplificazione. Il risultato? Opinioni sature ma fondate sul nulla. E una cittadinanza più emotiva che razionale, più tifosa che critica.
Questa deriva ha effetti concreti: scelte collettive miopi, consenso manipolabile, istituzioni delegittimate, social ridotti a contenitori di rancore o superstizione. La politica diventa spettacolo, il dibattito si trasforma in baruffa, l’elettore in spettatore. E intanto le questioni strutturali – lavoro, scuola, giustizia, ambiente – vengono ridotte a titoli di coda.
Ma chi ha rinunciato a sapere, chi evita di informarsi, chi rifiuta di porsi domande e accontentarsi di risposte preconfezionate, ha davvero diritto a decidere sul futuro di una comunità? È una domanda scomoda, certo. Ma necessaria. Perché la democrazia non sopravvive solo con le regole, ma con la maturità di chi le esercita.
Riflettiamo su ciò che avviene negli States, dove Donald Trump ha ricevuto il consenso dei “maschi bianchi” e degli strati culturalmente più poveri della popolazione. Il Presidente parla alla sua gente, usa un linguaggio volgare, insolente, arrogante e irrispettoso per compiacere il suo elettorato. Non gli serve altro. Quando decide, taglia l’assicurazione sanitaria proprio alla sua gente, la più povera d’America. Moriranno senza cure e senza essersi resi conto di essere stati privati del diritto di vivere.
Non è un problema solo americano. In Italia assume tratti particolari: vantiamo una tradizione di delega passiva, una scuola spesso umiliata o svuotata, un’editoria di massa piegata al sensazionalismo, una memoria storica fragilissima. Tutto questo produce una generazione – non anagrafica, ma mentale – che resta minorenne, pur invecchiando. Incapace di orientarsi in un mondo complesso, preda di narrazioni semplicistiche, nostalgiche o complottiste.
Il voto, allora, diventa l’atto finale di un’assenza. Non un diritto esercitato, ma un rito consumato. In questo senso, “i minorenni non votano” non è solo una norma giuridica. È una constatazione amara: chi rifiuta la responsabilità di sapere si autoesclude dal patto democratico. Non c’è bisogno di privarlo del diritto: lo disattiva da sé. Perché sì, i minorenni non votano. Ma il problema è quando a farlo sono i maggiorenni che non sono mai cresciuti








