C’è una frase che ogni tanto riemerge, scolorita e apparentemente pacificatrice: “il terrorismo non ha colore politico”. La si legge, ad esempio, in un manifesto della Cisl in Romagna, affisso in occasione dell’anniversario della strage di Bologna. Una frase che, più che un’analisi, suona come un’omertà. Perché il terrorismo, invece, il colore lo ha. Eccome se lo ha. Ce l’ha nella matrice ideologica, nei mandanti, nei complici, nei silenzi e nelle coperture. E soprattutto ce l’ha quando una parte politica, di fronte a quel terrore, non prende le distanze, non lo denuncia, non lo nomina fino a strappare una pagina di storia. Lo lascia lì, come una cosa staccata, impersonale, neutra. Un incidente della storia. Una “strage senza colpevoli”.
E allora no: dire che il terrorismo non ha colore è un atto politico. Serve a lavarsene le mani. Serve a spazzare via responsabilità troppo ingombranti da riconoscere. È un trucco per proteggere un’area culturale, un’identità, un patrimonio di idee che, se riconosciuto come contaminato dal sangue delle vittime, rischierebbe di crollare sotto il proprio peso.
La storia italiana è segnata da due terrori. Il terrorismo rosso, che ha insanguinato gli anni ’70 con le Brigate Rosse, Prima Linea, l’Autonomia Operaia armata. Quel terrorismo è stato riconosciuto, nominato, e combattuto anche – soprattutto – dalla sinistra. Dalla sinistra comunista, che ha preso le distanze, che lo ha espulso culturalmente. Ha pagato un prezzo (con i suoi morti), ma ha scelto da che parte stare.
Il terrorismo nero no. Da Piazza Fontana a Bologna, passando per Brescia, il treno Italicus, e altri attentati “strategici”, lo stragismo neofascista è rimasto un capitolo irrisolto. È lì, incastonato nella cronaca e nei processi, ma ancora oggi circondato da un alone di ambiguità. Si parla di “servizi deviati”, “interni dello Stato”, di “strategie”, ma si dimentica che i materiali, gli esecutori, i nomi, le simbologie, sono tutte inequivocabilmente nere. Eppure, chi oggi si muove in quell’area politica – o discende culturalmente da quella storia – raramente pronuncia quelle parole: neofascismo, terrorismo nero, strage di destra. Preferiscono il generico, il disinnescato. Parlano di “misteri”, di “ferite mai chiarite”, di “dramma nazionale”. Così si neutralizza la responsabilità, si sposta il discorso sulle ombre, si insinua il dubbio che tutto si equivalga. E soprattutto, si evita il confronto con il proprio passato.
Questa non è mancanza di memoria. È memoria selettiva. È strategia del silenzio. Non serve al Paese. Non serve alle vittime. E non serve nemmeno alla destra, che proprio per non aver mai fatto i conti fino in fondo con il suo ventre nero, continua a portarselo dietro come una zavorra, anche quando si presenta in giacca e cravatta, anche quando si dice democratica.
Riconoscere che il terrorismo nero è esistito, che ha avuto appoggi, che si è mosso in un contesto politico preciso, non è un atto di accusa universale. È un dovere. Farlo con parole chiare non significa fare sermoni. Significa rompere un silenzio complice.
Chi ancora oggi, nel 2025, parla di Bologna senza dire fascismo, senza dire stragismo nero, senza dire terrorismo neofascista, sta riscrivendo la storia. Sta scegliendo di dimenticare. Sta dicendo, implicitamente, che quei morti possono essere usati per una memoria tiepida, senza scomode verità. Ma i morti di Bologna – come quelli di Piazza della Loggia, dell’Italicus, di Piazza Fontana sono lì a ricordarci che il silenzio, talvolta, è complicità.







