Due editoriali, usciti a un giorno di distanza, convergono su un punto essenziale: il declino delle democrazie non passa soltanto per i colpi di mano autoritari, ma per l’erosione quotidiana dei contrappesi e per la svalutazione della critica pubblica. Su La Stampa (13 agosto 2025) “Montesquieu” difende un principio antico e sempre attuale: la democrazia ha bisogno della critica come condizione di salute del sistema. Il pezzo segnala tre casi – Stati Uniti, Israele e Italia – dove l’autonomia dei poteri costituzionali e il diritto di dissentire risultano sotto stress. È un campanello d’allarme: dove si comprimono l’indipendenza dei poteri e la libertà di contestazione, la democrazia smette di somigliare a se stessa.
Nadia Urbinati, su Domani (pubblicato online l’11 agosto 2025), descrive il fenomeno con una parola-chiave: “scorciatoia”. Sono le vie brevi – mediatiche, regolative o procedurali – con cui i governi aggirano la rappresentanza, neutralizzano il conflitto sociale e trasformano la libertà di parola in un gesto inefficace, puro segnaposto di legittimazione. Urbinati richiama fra l’altro la ricerca di Page e Gilens: negli Stati Uniti, le preferenze della maggioranza incidono sulle politiche solo quando coincidono con quelle delle minoranze economiche; altrimenti pesano poco o nulla. È una diagnosi di “oligarchizzazione” strisciante della democrazia.
Per “Montesquieu” la critica pubblica è un presidio costituzionale: senza opinione contraria, senza stampa e opposizioni che pungolano, i poteri non si bilanciano più. Urbinati osserva il lato speculare: quando il parlare è reso inoffensivo – perché non produce effetti sul ciclo delle decisioni – la libertà formale regge ma quella politica si svuota. In entrambi i casi il nocciolo è lo stesso: difendere la critica non è una questione di costume, è architettura istituzionale.
La Stampa mette in fila contesti nei quali l’autonomia dei poteri risulta compressa (giurisdizione, parlamenti, autorità indipendenti) e il diritto di dissentire subisce una delegittimazione politica. Urbinati chiama questo processo “scorciatoia”: l’urgenza, la retorica dell’emergenza o la liturgia mediatica quotidiana diventano dispositivi per saltare passaggi, devitalizzare i momenti di controllo e portare la decisione fuori dalla dialettica rappresentativa. Il risultato è identico: contrappesi più deboli, decisioni meno esposte a verifica e responsabilità.
Se la critica è resa impotente, il circuito decisionale si riallinea alle preferenze dei gruppi economicamente forti. Urbinati lo documenta citando Page e Gilens (2014), che misurano l’influenza sproporzionata delle élite economiche sulle politiche pubbliche. L’idea che “conta chi conta” non è più un sospetto moralistico ma un dato empirico; e, quando si somma alla marginalizzazione del dissenso, produce lo scivolamento che i due editoriali denunciano con vocabolari diversi.
La forza dei due editoriali sta nell’incrociare norma e diagnosi. La Stampa richiama la regola: separazione dei poteri, pluralismo, critica pubblica come “igiene” del sistema. Domani mostra la patologia: le democrazie possono continuare a parlare il linguaggio della libertà mentre spostano, con “scorciatoie”, il baricentro delle decisioni fuori dal controllo dei cittadini, fino a rendere la parola pubblica inconcludente. Sono due lenti che, sovrapposte, mettono a fuoco lo stesso oggetto.
Questa convergenza ha almeno quattro implicazioni operative: non basta garantire che tutti possano parlare: occorre ristabilire canali in cui le preferenze contino davvero – dalla qualità delle audizioni parlamentari alla trasparenza sui lobbisti, fino a strumenti deliberativi che non siano passerelle. Altrimenti la libertà di espressione resta vetrina.
Appare necessario ridurre l’uso improprio dell’urgenza normativa, limitare la decretazione d’urgenza e rifinanziare le capacità istruttorie dei parlamenti e delle autorità indipendenti. Se il problema sono le “scorciatoie”, la risposta è allungare i tempi dove serve e misurare gli effetti delle decisioni.
Dalle leggi sulla sicurezza alle norme sulle manifestazioni, diventa rilevante riconoscere che il costo politico della protesta è parte della fisiologia democratica. Un sistema che demonizza il dubbio – come nota Urbinati – inibisce l’allarme precoce davanti agli abusi.
Le evidenze di Page e Gilens sono un invito a seguire il denaro: quali gruppi traggono vantaggio da un provvedimento, e perché? Rendere tracciabili flussi e incontri, dichiarare impatti distributivi, aprire i dati. È così che si riallineano decisioni e maggioranze.
“Critica” e “scorciatoia” sono due parole che, insieme, raccontano la fase: la prima è la cura, la seconda il sintomo. La democrazia regge quando la critica è ascoltata da poteri separati e capaci di dirsi di no; si spegne quando l’impazienza (o la convenienza) spinge a saltare i passaggi, trasformando la partecipazione in scenografia.
Se c’è un messaggio da valorizzare nella coppia di editoriali è proprio questo: riabilitare la critica non come moralismo, ma come meccanismo istituzionale, e sfidare le scorciatoie con procedure che rendano la decisione più lenta quando deve, ma più responsabile sempre. Non è nostalgia del passato: è manutenzione del futuro democratico.
(Nell’elaborazione dell’articolo mi sono servito dell’IA)
(Riferimenti: La Stampa, “La democrazia ha bisogno di critica” (Montesquieu), 13 agosto 2025; Domani, “La libertà ai tempi di Meloni e Trump: la democrazia vive di scorciatoie” (N. Urbinati), 11 agosto 2025; M. Gilens, B. I. Page, “Testing Theories of American Politics”, Perspectives on Politics, 2014.)








