Nel silenzio imbarazzato delle cancellerie europee sui dazii dall’amministrazione americana, ed alla vigilia dell’annuncio sui costi dell’export di automobili negli USA, l’Agenzia delle Entrate italiana compie un gesto tutt’altro che tecnico: mette nero su bianco la richiesta di imposte arretrate a colossi americani come Meta e Face Book. Apparentemente si tratta di una banale questione fiscale, ma in controluce appare molto di più: un messaggio politico. Il Fisco italiano – senza consultare Palazzo Chigi – avanza un’istanza che, in un contesto ordinario, sarebbe di routine, ma oggi suona come un segnale di frizione, di disallineamento, di autonomia (o forse d’insofferenza?) nei confronti di un alleato sempre più imprevedibile. Lo stesso giorno, da Washington arriva un’altra bordata: ipotesi concreta di dazi al 25% sulle auto importate. Un colpo diretto al cuore industriale della Germania, ma con riflessi su tutta l’Unione. Un milione di veicoli solo dalla UE, 6 milioni se si considera il totale delle auto estere vendute negli USA. “Nessun problema”, dice qualche osservatore europei con disinvoltura, “basta un incentivo alla rottamazione, e quelle auto le assorbe l’Europa”.
Non è così semplice. Perché questo non è un problema industriale, è un nodo politico. È il segnale che l’America di Trump ha ormai voltato le spalle all’ordine liberale internazionale che essa stessa aveva costruito. La logica della cooperazione è sostituita da quella della competizione: difesa economica, protezionismo selettivo, alleanze condizionate all’interesse diretto. L’Europa non è più partner, è concorrente. O peggio: cliente.
E intanto, a Bruxelles, si discute di pace, di Ucraina, di riforme istituzionali. Il baricentro dell’Europa è inchiodato a est, con uno sguardo che cerca di bilanciare Russia e Stati Uniti, due potenze che – in modi diversi – stanno riscrivendo le regole del gioco senza avvertire l’Europa. L’inquietudine americana verso il disallineamento europeo è palpabile. Il disprezzo russo verso l’irrilevanza strategica europea è esplicito.Di fatto una piena concordanza di vedute.
Il rischio reale è che l’Europa venga scavalcata, non solo nel conflitto ucraino, ma nella definizione stessa del nuovo ordine mondiale. La partita che si sta giocando è grande: riguarda i semiconduttori, l’intelligenza artificiale, i corridoi energetici, le materie prime, la leadership nei Balcani e in Africa. In questo quadro, l’Europa appare spesso come una “variabile indipendente”, non perché sia forte, ma perché è scollegata: ogni Paese gioca per sé, ogni istituzione sembra paralizzata da burocrazia e prudenza.
E così anche il gesto dell’Agenzia delle Entrate italiana assume una dimensione simbolica. È un piccolo atto di sovranità, forse inconsapevole, forse isolato, ma che ci dice molto: la pazienza fiscale, politica e strategica dell’Europa nei confronti degli Stati Uniti non è infinita. Il conto, prima o poi, arriva. Anche quello delle alleanze.
Se i dazi americani sono la prima raffica, la risposta europea non può essere una difesa passiva. Serve un piano industriale comune, una difesa europea autonoma, una politica estera più assertiva. O accettiamo il ruolo di parassiti – come ci descrivono certi consiglieri trumpiani – o ci assumiamo il rischio di diventare adulti. Ma in fretta.








