Nel frastuono dei droni su Teheran e nell’eco dei missili su Kharkiv e Rafah, si disegna silenziosamente una nuova Jalta – senza mappe, senza generali, ma non meno incisiva. La geografia non si spartisce più con righelli su tavoli di conferenze, bensì con flussi di dati, algoritmi, guerre ibride e cinismi strategici. Non serve più firmare trattati: basta dissimulare, tacere, deviare, mentre la realtà si ridefinisce nel sottobosco delle intese informali.
la convergenza di interessi fra Trump e Putin, nella forma di una spartizione implicita del potere globale. Il Medio Oriente in mano agli autocrati di destra (Trump e Netanyahu), l’Europa declassata e destabilizzata a beneficio della Russia imperiale. Tutto avviene senza dichiarazioni formali, ma con gesti, silenzi, voti all’ONU e omissioni strategiche.
Il basso profilo russo per l’attacco statunitense all’Iran è una liturgia diplomatica. Il Cremlino protesta con toni misurati, ma non minaccia, non interviene, non schiera. Non è debolezza: è convenienza. La Russia non ferma l’America che colpisce lo sciismo iraniano, anzi: l’asse Teheran-Mosca, sempre fragile e utilitaristico, può tranquillamente essere sacrificato se in cambio si apre uno spazio di influenza sull’Europa. La convergenza di interessi fra Trump e Putin, nella forma di una spartizione implicita del potere globale, disegna la mappa del potere. Il Medio Oriente in mano agli autocrati di destra (Trump e Netanyahu), l’Europa declassata e destabilizzata a beneficio della Russia imperiale. Tutto avviene senza dichiarazioni formali, ma con gesti, silenzi, omissioni strategiche.
Putin ha ottenuto tutto ciò che poteva in Siria. In Iran, il rischio era quello di un’escalation incontrollata in un’area in cui Mosca ha influenza ma nessuna leva decisiva. Meglio lasciare campo libero a Trump, in cambio di un premio più ambito: la delegittimazione dell’Europa come attore geopolitico.
La contropartita è evidente: l’America trumpiana si disinteressa dell’Ucraina, lascia che le truppe russe consolidino le annessioni e spezzino ogni possibilità di reintegrazione territoriale. Trump non vuole la guerra, non per pacifismo, ma per calcolo: un’Europa debole, frammentata, privata della protezione atlantica e preda di tensioni interne, su cui i nazionalisti filo-russi possano soffiare e prosperare.
L’adesione USA ai voti filorussi nelle sedi ONU non è stato un errore diplomatico: è una precisa strategia di demansionamento dell’Occidente, in cui l’UE non è più alleata, ma concorrente da depotenziare. Il G7 perde rilevanza, la NATO viene sfidata dall’interno, e l’Europa – senza sicurezza, senza voce univoca, senza leadership – rischia di diventare terra di nessuno.
Trump e Putin si conoscono da molto prima delle elezioni del 2016. Le tracce d’affari – immobiliari, bancari, energetici – risalgono agli anni ’90, quando entrambi erano uomini in cerca di legittimazione. L’uno erede impoverito del sogno americano, l’altro reduce dalla dissoluzione sovietica. Le fortune personali e politiche dei due si sono spesso incrociate, in modo dissimulato ma tenace, grazie a una rete di intermediari, oligarchi, banche e interessi comuni. Oggi, quel matrimonio d’interesse si rinnova con una posta in gioco globale: il Medio Oriente a Trump, l’Europa a Putin. Il primo ottiene petrolio, appalti, consenso evangelico e l’alleanza con Israele e Arabia Saudita; il secondo raccoglie sfere d’influenza post-sovietiche, territori contesi, e il lento ma costante sgretolamento dell’ordine euro-atlantico.
Nel mezzo, due fronti di guerra – Gaza e Ucraina – dove si continua a morire, ma che non rientrano più nelle priorità dei decisori globali. A Gaza, la distruzione prosegue mentre Netanyahu, sopravvissuto a ogni scandalo, rafforza il blocco di potere messianico e suprematista con l’attacco all’Iran, grazie ala suo braccio armato, Trump. In Ucraina, i rifornimenti militari scemano, la stanchezza occidentale si traduce in ambiguità e la resistenza di Kyiv resta sempre più isolata.
Né Washington né Mosca hanno interesse a chiudere questi conflitti. La guerra a bassa intensità serve a congelare lo status quo, giustificare poteri eccezionali, testare nuove armi e logorare l’avversario.
Ma questo nuovo ordine non ha più padri nobili. Non c’è visione, non c’è pace futura. Non si creano alleanze, si coltivano disgregazioni. L’unico principio guida è la reciprocità del vantaggio: fifty-fifty, finché dura.
Che un giorno questo nuovo patto– fragile, instabile, cinico – possa implodere sotto il peso della sua stessa impunità, è solo un auspicio. Ma intanto si installa. Silenziosamente. Una voce flebile è venuta dal Ministro della Difesa del governo italiano, Crosetto. Ha capito che le grandi democrazie sono in pericolo. Un allarme, a bassa intensità.
 
			 
			







