C’è una rivoluzione in corso negli Stati Uniti che non passa per barricate, né per decreti eclatanti. Si consuma, invece, nel silenzio delle redazioni, nella marginalizzazione dei giornalisti dai luoghi dei fatti, e nel progressivo azzeramento della funzione mediatica tradizionale. Il suo epicentro è la comunicazione presidenziale. L’artefice – o il sintomo più compiuto – è Donald Trump. Ma non mancano gli imitatori.
Durante le ore più tese del conflitto tra Stati Uniti e Iran, non è stata la stampa a dettare i tempi della notizia. È stato Trump, direttamente, attraverso i suoi canali social – in particolare Truth Social – a scandire gli aggiornamenti, modulando i toni tra minaccia e pacificazione. Il gesto non è nuovo, ma questa volta ha segnato un punto di non ritorno: la verità non passa più dal filtro della verifica, della contestualizzazione, del contraddittorio. È una verità sovrana, perché emanata dal sovrano stesso.
Il sistema mediatico, una volta canale di legittimazione dell’informazione pubblica, è ora considerato un corpo estraneo, persino fastidioso. I giornalisti sono tenuti alla larga dai teatri di guerra – embedded solo se docili – e la stampa è trattata alla stregua di un nemico interno, come documentato da molteplici denunce di associazioni per la libertà di stampa (Committee to Protect Journalists, Reporters Without Borders). Le conferenze stampa sono sempre più rare, i briefing sostituiti da post, e le domande non hanno più un posto nel rito democratico.
Il meccanismo si regge su una logica semplice quanto efficace: chi annuncia per primo conquista il racconto. Se l’annuncio viene dal vertice, la narrazione si impone come premessa. La contro-narrazione, se e quando arriva, suona come una smentita del reale e, in quanto tale, viene tacciata di essere “fake”. Così, anche il tempo dell’informazione si ribalta: non è più il giornalista a dover raggiungere la verità, è il cittadino che deve inseguire l’autorità nel suo flusso comunicativo. Il consenso, a quel punto, non è il prodotto di un dibattito, ma l’esito immediato di un coinvolgimento emotivo, alimentato da messaggi diretti e binari: minaccia/risposta, colpa/espiazione, amico/nemico, paura/ sicurezza.
Non siamo davanti a una censura nel senso classico. La stampa, formalmente, è libera. Ma è stata scavalcata nella sua funzione pubblica, resa irrilevante. La sua delegittimazione non passa dal bavaglio, ma dall’irrisione e dalla disintermediazione. In questo senso, Trump non è diverso – quanto a esiti – da Putin o Xi Jinping. L’uno invoca la sovranità digitale, l’altro il “controllo armonioso” del flusso informativo. Trump preferisce il metodo americano: bypassare. Escludere non con la forza, ma con il silenzio.
Un recente report della Columbia Journalism Review parla di “presidential unilateralism in the information age”: l’autorità che si fa anche editore, narratore e regista della realtà. Non è un caso isolato. Negli ultimi mesi, la strategia è stata esportata in Europa – si pensi alla comunicazione personalistica di Viktor Orbán – e in Israele, dove Netanyahu dialoga quasi esclusivamente con il suo elettorato via Telegram e YouTube. Anche Giorgia Meloni, in Italia, privilegia i social all’arena parlamentare. Non è solo propaganda: è la sostituzione della sfera pubblica con la platea personale.
Il rischio è evidente. Una democrazia senza stampa non è solo zoppa: è cieca. Quando l’informazione è ridotta a dichiarazione, e la verifica è sostituita dal tifo, la deliberazione pubblica si trasforma in plebiscito. E un popolo che applaude, ma non conosce, è il primo alleato di chi vuole decidere senza essere disturbato.






