Come nei Tamburi della pioggia di Ismail Kadare, anche oggi la storia sembra scolpita nella memoria di un popolo assediato. Nel XV secolo, a Kruja, una piccola città albanese resisteva anno dopo anno alla marea ottomana, narrata dallo stesso punto di vista dell’assediante: i turchi raccontavano, senza volerlo, la grandezza dell’eroe che li sconfiggeva. Scanderbeg e la sua gente non erano solo guerrieri, ma ostinati custodi di un destino che pareva impossibile.
L’assedio era una lunga sequenza di invenzioni crudeli: gallerie sotterranee, pozioni di peste, acquedotti recisi. Ma, alla fine, la vittoria dell’assediato arrivava dal cielo: la pioggia d’autunno trasformava le macchine d’assalto in relitti di fango, costringeva l’esercito ottomano a ritirarsi. E loro tornavano, venticinque volte, sempre convinti di piegare quel piccolo bastione, sempre respinti.
Oggi, in Ucraina, il rullo cupo dei tamburi non è quello di una pioggia liberatrice, ma delle artiglierie e dei droni. L’assediante ha scavato le sue gallerie, avvelenato le fonti, tagliato i ponti. L’assediato resiste, e la sua resistenza è raccontata perfino dal nemico,.
IL finale che l’Europa evoca somiglia a quello del romanzo: l’illusione di un momento in cui, senza preavviso, il cielo si spezzi in un diluvio di acqua e non di fuoco; in cui i tamburi che rullano non siano più di guerra, ma di pioggia. E l’aggressore, zavorrato dal fango, costretto a ritirarsi, rinviando l’assalto a un anno che forse non verrà mai.
Illusione, certo, Ma che cosa resta altrimenti, se non la ospitiamo nei nostri pensieri, giusto per continuare a credere nell’impossibile.
 
			 
			







