Mai un negoziato di pace si era presentato con contorni tanto surreali. Donald Trump, il nuovo “pacificatore”, ha scelto di mediare senza mediazione: non chiede tregue, non impone cessate il fuoco, non pretende neppure una sospensione dei bombardamenti. La condizione elementare di ogni trattativa – fermare le armi – scompare. Resta soltanto la sceneggiata diplomatica in cui l’aggressore detta i tempi, le modalità e persino i titoli dei comunicati.
Al tavolo, accanto al leader americano, siede Giorgia Meloni. Non per rappresentare l’Europa, che da questa trattativa è stata scientemente esclusa, ma per certificare la sua fedeltà al nuovo Duce d’oltreoceano. È un ruolo di contorno, ma politicamente significativo: un premio per le genuflessioni degli ultimi anni, per le acrobazie verbali e gli equilibrismi di una premier che scambia la subalternità per riconoscimento.
Intanto Sergej Lavrov accusa gli europei, Italia compresa, di essere guerrafondai. Un paradosso che stride con la realtà dei bombardamenti russi su città ucraine e civili in fuga. Ma il capolavoro dell’assurdo è proprio questo: l’Italia riesce a stare dalla parte sbagliata due volte. Regge il gioco a Trump, che nei fatti facilita Putin, e nello stesso tempo viene additata da Mosca come complice della guerra.
È la fotografia di una politica estera rovesciata. L’Italia non è né mediatore credibile né alleato affidabile, ma figurante. Si limita a recitare in un teatro dove i tiranni dettano la trama e le corti applaudono. Il risultato è disarmante: il negoziato di pace che non porta pace, l’Europa marginalizzata, l’Italia ridotta a valletta di scena. Una strategia che espone il nostro Paese al ridicolo e lo condanna a pagare un prezzo politico senza alcun ritorno.
Gli equilibrismi di Meloni – che oscillano tra l’ansia di compiacere Washington e la paura di rimanere isolata in Europa – non producono equilibrio. Producono soltanto subalternità, ambiguità, inaffidabilità.
 
			 
			







