Il governo italiano si oppone strenuamente al superamento del diritto di veto nell’UE, causa prima dell’irrilevanza dell’Europa e perora una politica docile e amicale verso l’America di Trump, che vuole espropriare l’UE dei propri legittimi poteri, per favorire le grandi compagnie americane. Il doppio gioco del governo italiano tradisce gli interessi del nostro paese. L’irrilevanza dell’Europa costituisce l’obiettivo di Trump e di Putin.
C’è un nodo che stringe l’Italia sempre più stretta, in apparenza invisibile ma tremendamente concreto: un legame che non è solo atlantico, né soltanto diplomatico. È un vincolo di allineamento culturale, strategico e politico verso un modello di potere che, negli Stati Uniti, sotto Donald Trump, sta rapidamente smettendo di essere una democrazia liberale e sta diventando qualcos’altro. E noi — Italia — non opponiamo resistenza. Al contrario, sembriamo marciare silenziosamente lungo una strada che ci conduce non solo alla Casa Bianca, ma dentro l’orbita ideologica e operativa del trumpismo globale.
Gli Stati Uniti stanno cambiando pelle. Non è una svolta improvvisa: la deriva è in corso. Il sistema istituzionale americano è sotto stress, le regole del confronto politico sono erose da una concezione illiberale del potere: tribunali addomesticati, libertà civili sotto attacco, gestione autoritaria della sicurezza interna e dell’informazione. È una “dittatura a intermittenza”, che si mimetizza sotto la scorza delle istituzioni, ma opera come un regime personalistico e punitivo.
Non è la Russia, non è la Corea del Nord, non ha i gulag né la propaganda di Stato h24. Ma è un sistema in cui la democrazia è una facciata e il potere un’arma per dividere, colpire e rafforzare sé stesso. E questo modello — che da Washington si proietta sul mondo — trova alleati, simpatizzanti, discepoli. Giorgia Meloni, oggi, è una di questi.
Non è solo una questione di affinità politica. È una questione di stile di governo. Autoritarismo soft, verticalismo del potere, riduzione del pluralismo nei media, uso strategico della paura e dei nemici interni ed esterni, delegittimazione dell’opposizione, culto della leader. Non c’è bisogno di stravolgere la Costituzione per somigliare a Trump. Lo fa sul piano simbolico, con incontri bilaterali che valgono più di mille comunicati ufficiali; lo si fa sul piano pratico, con il silenzio assordante davanti ai dazi americani (olio e vino), che il governo subisce senza reagire, come se la sovranità fosse un cappello da sfilarsi quando si entra alla Casa Bianca. E lo fa, soprattutto, con una concezione distorta della pace e della guerra. L’Italia si è infilata in una diplomazia grottesca che pretende di “negoziare la pace” con chi la pace la sabota ogni giorno. La finta equidistanza sul conflitto in Ucraina, il doppio linguaggio su Gaza, l’ossessione per la “stabilità” a scapito della giustizia e del diritto: tutto questo fa parte di un copione che ha più a che fare con l’appeasement dei potenti che con la costruzione di un ordine internazionale fondato su regole condivise.
In questo scenario, appare un paese in transizione, in oscillazione costante tra istituzioni repubblicane ancora solide e una cultura politica sempre più permeabile a modelli autoritari.mIl rischio non è imminente, ma strutturale. Non ci sarà un golpe, non ci saranno stivali per le strade. Ma ci sarà una inevitabile subordinazione economica e politica all’ideologia della forza. Stiamo percorrendo una strada che ci conduce alla Casa Bianca — ma non quella di Roosevelt o di Obama. È la Casa Bianca di Trump, quella che assomiglia sempre di più a una reggia. E noi, forse, stiamo diventando la corte
(La vignetta è di Altan)








