Non c’è mai stato un vero “profitto” da tassare. C’è stata piuttosto l’illusione di poterlo fare. La tassa sugli extraprofitti bancari, presentata come una misura di equità, si è dissolta nel solito compromesso: la montagna ha partorito l’ennesimo topolino normativo, utile solo a salvare la faccia del Governo e i bilanci degli istituti di credito. Nessuno avrebbe scommesso sul via libera. La sceneggiata della disputa fra Salvini, ruvido tassatore, e Tajani, difensore del liberalismo, è una vecchia manfrina. Roba da avanspettacolo, piccole baruffe fra competitor di seconda fila nella caccia al voto dei seguaci meno attrezzati alla comprensione.
Forza Italia, che ha posto il veto sulla misura, esce dalla partita come il garante dell’intangibilità dei profitti bancari. E in effetti, a conti fatti, vincono ancora loro: le banche. L’IRAP sugli azionisti scende dal 40 al 27 per cento; la tassazione sui dividendi aumenta di appena due punti, ma verrà applicata solo quando i dividendi saranno distribuiti, cioè quando e se le banche decideranno. Tradotto: lo Stato incasserà, forse, ma non adesso.
I cinque miliardi che avrebbero dovuto finanziare misure sociali e interventi per famiglie e lavoratori restano sulla carta. La manovra, celebrata dalla Premier come “bella e perfetta”, si rivela fragile, senza prospettive di crescita e priva di risposte concrete per i ceti medi e popolari.
L’episodio più eloquente a suggello della “magra figura” del governo si è visto in conferenza stampa: la Premier e i ministri si sono allontanati prima che Giorgetti prendesse la parola per rispondere ai giornalisti. Il volto del Ministro dell’economia tradiva luna rassegnata solitudine di chi sa di dover giustificare una resa annunciata.








