L’agguato al bus dei tifosi di Pistoia, che ha portato alla morte di un autista, si inserisce in un contesto ben noto: quello del legame tra alcune tifoserie ultrà e l’estrema destra. Un filo nero che passa anche per le curve romane di Lazio e Roma, storicamente vicine a ambienti di estrema destra e spesso protagoniste di episodi violenti. Tuttavia, c’è un altro elemento che merita attenzione: il silenzio del governo. Mentre in altre circostanze – ad esempio in occasione di manifestazioni di piazza molto partecipate – la Presidente del Consiglio non ha esitato a intervenire pubblicamente, stigmatizzando le folle e tacciandole di crimini, di fronte a episodi di violenza legati agli ultrà di destra il silenzio sembra essere la regola. Dov’è quella fermezza mostrata in occasione delle manifestazioni studentesche, delle piazze pacifiste, sindacali, dei raduni ambientalisti? Quando a sfilare sono i giovani con cartelli per la pace, o le famiglie con striscioni per il lavoro, la reazione è immediata: accuse, denunce, moniti, talvolta perfino condanne pubbliche da parte del governo.
È un doppio standard che non passa inosservato e che merita di essere sottolineato. A colpire infatti non è solo la brutalità del gesto: è il contesto che lo circonda, la sua matrice ideologica e — soprattutto — il silenzio istituzionale che lo accompagna.
Nella sede dei tifosi reatini sono stati rinvenuti manifesti, murales e immagini inneggianti apertamente al fascismo e a Benito Mussolini. Una simbologia che non ha nulla a che fare con lo sport, ma che ritorna costantemente nei settori più oscuri e radicalizzati delle curve italiane. È da lì che, da decenni, crescono piccole milizie, più o meno tollerate, che si organizzano e agiscono come avamposti di un’ideologia che non ha mai smesso di guardare al ventennio.
La geografia del tifo di estrema destra in Italia ha una capitale storica: Roma. Le curve di Lazio e Roma hanno ospitato, negli anni, figure, sigle e rituali riconducibili all’estrema destra extraparlamentare. Dai saluti romani ai cori contro ebrei, neri, antifascisti; dalle commemorazioni di giovani neofascisti caduti negli anni Settanta fino alle amicizie internazionali con i gruppi più radicali del tifo europeo — serbi, polacchi, spagnoli. Tutto sotto gli occhi delle società, delle istituzioni e, spesso, dei partiti di riferimento, seppur distante.
Eppure ora, davanti a un’aggressione squadrista in piena regola. silenzio. Non un’analisi sulle infiltrazioni neofasciste nello sport. La violenza si banalizza, viene tollerata, riceve l’ombrello dello sport. Diventa “una rissa tra tifosi”, “un episodio isolato”, “un’aggressione da stadio”.Ma non lo è.È il frutto di una cultura che continua a trovare spazi, impunità e perfino consenso nei gangli meno visibili del sistema. Una cultura che si mimetizza tra sciarpe e tamburi, ma che ogni tanto torna a mostrare il volto che ha sempre avuto: violento, vigliacco, organizzato.
Resta la sensazione di un Paese che tace troppo e troppo spesso proprio quando il fascismo — quello vero, non quello evocato per polemica — e bussa alla porta con un casco in testa e una spranghetta in mano.








