Dietro la presunta “svolta” di Giorgia Meloni – la critica a Benjamin Netanyahu sulla “guerra perpetua” e la richiesta a Donald Trump di invitare anche l’Ucraina al vertice in Alaska – si muove un meccanismo politico molto più calcolato di quanto appaia. Il racconto ufficiale lascia immaginare una conversione, una premier capace di smarcarsi dai due leader che, negli ultimi anni, hanno rappresentato riferimenti strategici per il centrodestra italiano. Ma il retroscena mostra un quadro meno lineare.
Sul dossier commerciale, Meloni non ha mai attaccato frontalmente i dazi trumpiani contro l’Europa, nonostante l’impatto diretto sull’export italiano. Nei corridoi di Palazzo Chigi si è ragionato sulla possibilità che la partita possa essere chiusa con un compromesso: accettare in parte l’impostazione americana in cambio di una revisione “morbida” sulla fiscalità delle Big Tech in Europa, dossier cruciale per Trump e, indirettamente, per i rapporti del governo con i colossi del digitale. Questi ultimi – da Google ad Amazon – non sono solo investitori e datori di lavoro, ma anche attori con un ruolo strutturale nella propaganda politica online.
Sul fronte internazionale, la fermezza su Gaza e Ucraina funziona da copertura: serve a rafforzare il credito europeo di Meloni, in un momento in cui Bruxelles osserva con sospetto i rapporti bilaterali privilegiati che Roma coltiva con Washington e Tel Aviv. Non è un caso che le parole più dure siano arrivate in un contesto di summit multilaterali, dove la premier non poteva rischiare di apparire allineata a due leader isolati sul piano diplomatico.
Il doppio binario è evidente: sull’arena pubblica, Meloni indossa la veste di leader autonoma e “con la schiena dritta” su guerra e diritti umanitari; nelle stanze riservate, mantiene un atteggiamento di flessibilità verso chi può garantire vantaggi strategici, economici e tecnologici. L’obiettivo non è rompere con Trump o Netanyahu, ma preservare margini di manovra, evitando scontri che possano compromettere il sostegno di alleati e sponsor di peso.
Dietro la narrativa della “conversione” resta dunque un’operazione di posizionamento: abbastanza netta da rassicurare l’Europa, abbastanza prudente da non bruciare i rapporti con i due “amici” di riferimento. In diplomazia si chiama hedging, copertura del rischio. In politica interna, è una forma di assicurazione sul futuro.
 
			 
			







