L’incontro fra Donald Trump e Vladimir Putin non è stato un gesto protocollare, né un atto di cortesia diplomatica. È stato, fin dall’impianto, la definizione di un codice di comportamento condiviso: fissare regole comuni per gestire il resto del mondo, quello degli “altri”, ridotti a interlocutori subalterni. Tra questi “altri” ci siamo anche noi, l’Europa.
I punti fermi sono chiari. Primo: costruire una piattaforma comune da imporre come orizzonte politico obbligato agli altri attori, a cominciare dalla NATO e dall’Unione Europea. Secondo: garantire in modo prioritario la sicurezza della Russia, sancendo una volta per tutte la sacralità dei suoi confini e della sua integrità territoriale, come se la guerra d’aggressione in Ucraina fosse già un dato acquisito e da ratificare. Terzo: subordinare ogni scelta internazionale agli interessi reciproci dei due Signori, da dettagliare nei prossimi appuntamenti. Quarto: calibrare queste scelte alla luce dei colloqui con i potenziali contendenti — Ucraina, NATO, UE — e con un convitato di pietra che osserva e aspetta: la Cina.
In questa architettura, l’Europa non è partner ma oggetto. La sua marginalità, anzi, è un obiettivo perseguito da entrambi. A Trump conviene un’Europa debole, divisa, costretta a mendicare protezione e concessioni commerciali; a Putin serve un’Europa paralizzata, spettatrice rassegnata della revisione dei confini e della spartizione delle sfere d’influenza. Due visioni complementari che trovano il loro cemento in un cinismo di potenza: il mondo come una partita fra leader carismatici, e gli altri ridotti a comparse. I giochi, tuttavia, non sono fatti: Putin vuole staccare l’UE dagli USA, gli USA vogliono staccare la Russia dalla Cina, la Cina vuole servirsi della Russia per avere l’ultima parola, tenendo in piedi l’economia russa “provata” dalle sanzioni e dalla guerra.
Per l’Europa, l’umiliazione è palpabile, non è solo geopolitica: è culturale e politica. Un continente che aveva preteso di proporsi come modello universale — l’“Europa dei diritti”, l’“Europa della pace” — si ritrova oggi marginalizzato proprio nei due terreni che avrebbero dovuto essere il suo marchio identitario: sicurezza e negoziato multilaterale. Non solo l’Ucraina, ma l’intera architettura europea è in discussione: il diritto internazionale, la difesa comune, il rapporto con la NATO e con la Cina.
Il rischio più grande è che la marginalizzazione venga interiorizzata: che l’Europa, anziché reagire, si abitui alla sua irrilevanza, illudendosi di difendere “il proprio modello sociale” mentre attorno i Signori riscrivono i confini e i mercati. Per Trump e Putin è il modo migliore di consolidare la loro intesa: ridurre l’Europa a un convitato silenzioso, utile solo come sponda economica o come area di influenza da spartire.
La domanda vera è se i leader europei sapranno, o vorranno, sottrarsi a questa marginalizzazione. Finora le risposte sono state esitanti, divise, troppo attente al calcolo interno per cogliere la portata storica della sfida. Ma senza una reazione politica forte, che unisca l’Europa su difesa, commercio e politica estera, la partita sarà già persa: e i Signori continueranno a scrivere regole e priorità che noi ci limiteremo a subire. Con il compiacimento di putiniani e trumpiani di ferro in servizio permanente effettivo a casa nostra, nelle istituzioni e sui social. Un mistero.
 
			 
			







